Negazione-I racconti di Dan .2-


“Sei una testa di cazzo Dan!” Rocco non scherzava, “E non pensare di chiudermi la telefonata in faccia! Ti aspettavo sai! Stavolta non ho trovato storie da raccontare, perché indovina? Non mi vanno più le tue pallonate!”

“Ehi, calmati. Ok? Non ti ho promesso niente e poi, non obbligarmi a tirare fuori giustificazioni, non sono un bambino idiota! Non sono uscito, non sono venuto al pub. Mi dispiace. Ti faccio le mie più fottute scuse. Ora, se vuoi chiudermi la telefonata in faccia fai pure così torno a dormire e magari mi dimentico di questa telefonata..”
Ci fu un ronzio di fondo e poi Tut. Chiuso.
Dan si passò la mano tra i capelli, si massaggiò la faccia , stropicciandosi come fosse un cuscino da sprimacciare. Sospirò stanco e si lasciò cadere sul materasso.
Guardava il soffitto sentendosi sbagliato, terribilmente sbagliato.
Ci sarebbe stato mai un giorno buono? Un giorno in cui si sarebbe sentito un po’ meglio di uno schifo?
Gli uccellini cip cip cip, ma non faceva più effetto.
Nel petto la primavera bussava con tocco delicato e poi più forte, fino a percuoterlo, ma niente, la porta restava chiusa e lui dietro.
Andava tutto bene, tutto uguale a sempre, la solita menata, il solito tran tran di ogni giorno.
Avrebbe potuto mascherare il suo essere asociale scrivendo libri su qualcosa, oppure i fumetti, era bravo, lo sapeva,le sue tavole erano nascoste bene, non si sa mai.
Qualche volta il battito accelerava alla fantasia di diventare avventuroso, perdersi nel mondo, esplorare, fare qualche ricerca assurda, sarebbe stato il massimo!
Doveva recuperare la voglia.
Il diploma l’aveva scucito con la pietà, qualche soldo nelle tasche giuste e il desiderio del suo istituto di liberarsi di lui una volta e per sempre. La gente che parla da sola, o peggio che crede di avere un interlocutore inesistente, non è gradita.
I suoi non avevano insistito troppo perché si iscrivesse a una qualche facoltà.
Far finta di niente è un conto, vivere nell’utopia, non era proprio nel loro stile.
In estate si poteva fingere una pigrizia da recupero, come se avesse studiato per la matura.
Si grattò indolente, schioccando la lingua. Aveva l’alito fetente di chi si è appena svegliato con il bacio dell’ultima sigaretta del giorno prima.
“Mi romperanno la testa. Si può accettare i deliri, le pillole come fossero mentine, ma le sigarette per carità, non vorrai avvelenarti?”rise da solo scuotendo la testa.
Si alzò, camminando come un papero stordito si avvicinò alla finestra. Scostò le tende color panna, a gusto della madre, la signora del buongusto prediligeva i toni tenui.
Fuori la luce era già alta, buttò l’occhio sul comodino: le dieci.
Mi dispiace.
Si picchiò le tempie coi palmi delle mani, strizzando gli occhi per fare uscire qualcosa da sé che non voleva andarsene.
Buttò fuori i fiato e aprì la finestra: “Furia!” Poi un fischio lungo.
Nel giardino sbucò correndo un botolo di pelo fulvo e si posizionò scodinzolando sotto la finestra aperta.
“Bravo! Aspetta che mi do una sistemata e scendo, non ti muovere!”
Quello rimase lì, lingua fuori ansimante, mentre la coda batteva il terreno.
Dan prese jeans e camicia e si fiondò in bagno.
Il volto che si rifletteva nello specchio ovale non gli piaceva per niente.
Un ragazzo pallido, dagli occhi grigi e i capelli biondi, troppo lunghi. Era bello, lo sapeva, ma di una bellezza che non sentiva, non si accordava col suo interno. Sarebbe stato perfetto per un pianista, uno studioso, forse un ballerino o un cantante, ma non per un dannato come lui.
Si guardò imbronciato, ostile. Gettò la testa sotto il rubinetto aperto, l’acqua fredda gli dette la giusta sferzata. Molto meglio.
Svuotò la vescica aspettando che l’ultima goccia stillasse come l’essenza di Grenouille, ma l’essenza che sarebbe uscita dal suo alambicco non era cosa da catalogare, anche se Grenouille non avrebbe giudicato male in ogni caso.
Scese le scale di corsa, per non incrociare volti umani e perché fosse chiaro che non era in vena di scambi verbali.
Furia era lì, come da copione: fedele, felice solo per il fatto che Dan esistesse.
Furia!
Il cane scodinzolò con foga, sentendo il richiamo che Dan cercava disperatamente di ignorare nella sua mente.
“Amico no! Non puoi farlo, finirai impasticcato come me, te ne rendi conto?”
Furia gli leccò il polpaccio, ignorando il jeans che lo ricopriva.
“Non so ancora decidermi se sei un genio o uno stolto completo, ma non farmi più questo scherzo, intesi?”
Gli diede una pacca affettuosa sul fianco e si incamminò col botolo al seguito.
Si immerse nella musica che gli bombardava il cervello tramite gli auricolari dello smartphone.
Janie’s got a gun… gli Aerosmith erano sempre grandi, sempre giusti, perfetti per estraniarsi.
Dan sentiva in qualche modo di aver subito una violenza, era stato preso, sbattuto in quella clinica, impasticcato, analizzato corpo e cervello e si era dovuto difendere da sé con la menzogna, con la nebbia che gli offuscava la capacità di pensare.
Voleva solo correre lontano dal dolore, più lontano, ma stare in casa coi suoi, che con tutto l’amore del mondo avevano permesso quel dolore, non era esattamente il senso di libertà che aveva agognato.
Sua madre tollerava il suo risentimento come un inevitabile effetto collaterale della cura, il padre invece aveva la colpa dipinta in faccia, faccia che infatti teneva costantemente rivolta altrove, incapace di sostenere la delusione del figlio.
Quindi la voce che gli si era insediata tra i pensieri aveva ottenuto il suo isolamento, ed era ancora lì, lo sapeva.
Mi dispiace.
-Mi dispiace? Dispiace a me sentire ancora la follia che mi controlla!-
Non sei matto, e io non sono te. Tu mi senti, ti prego, ascoltami. Non è facile comunicare.
Dan si fermò, sul marciapiede con Furia che lo osservava seduto.
Mise in pausa la musica, staccò con stizza gli auricolari e li mise in tasca. Si guardò attorno, nulla. Solo le case residenziali di sempre, i muri di cinta alti, con le fronde verdi che sbucavano dal giardino.
Nessuno aveva assistito, nessuno poteva capire che lui sentiva una voce nel cervello.
Si prese la testa con le mani, in una morsa stretta. Voleva piangere, gettarsi in terra, senza più lottare, ma piangere senza ritegno.
Dan? Dan, ti prego, io esisto e non faccio parte di te. Tu non sei pazzo.
-Freud la penserebbe diversamente! Forse mia madre non mi ha allattato, non so, forse ho subito qualche trauma che non ricordo..-
Dan, smettila di compatirti. Tu mi senti, perché non lo so, ma sei la mia ancora di salvezza. Non negarmi, o non esisterò più.
-Ma che cavolo! Chi sei? Come faccio a sentire una voce femminile nella mia testa? Sei un tumore, una maledizione?-
Dan si incamminò verso una panchina nel parco oltre la strada.
Si sedette nella speranza di riuscire meglio a controllare il proprio gesticolare.
Furia cercò di saltare per stargli accanto, ma le sue zampette corte non glielo consentivano, così dopo un paio di tentativi sgraziati Dan lo prese e lo lasciò acciambellarsi col muso appoggiato sulla coscia.
“Sei il solito sportivo Furia! Non resisti al richiamo della natura tu, come farò a recuperarti per tornare a casa?” scherzò affettuosamente col cane, grattandolo in quel punto dietro l’orecchio che sapeva farlo sorridere come un bambino.
Dan? Mi dispiace per quello che ti hanno fatto, io non sono frutto della tua fantasia. Sono una persona, lo ero comunque.
-Come ti chiami, chi sei e perché mi dai il tormento?-
Mi chiamo Sarah, sono una ragazza e non so cosa sia successo, ma sono in qualche modo collegata a te. Non voglio tormentarti, ma non voglio scomparire in quel buio senza fine.
-Sara. Sei una sorta di fantasma? Devo credere alle fantasie popolari? Io non ho subito alcun trapianto, non ho fatto sedute spiritiche, non capisco come mai sento i fantasmi in testa!-
Non sono un fantasma! Non lo so perché mi senti, ma io ti sento sempre, so cosa fai, riesco a vedere coi tuoi occhi, no, in realtà vedo quello che pensi.
-Da quanto? Da quanto tempo va avanti tu e io, insomma.. tu nella mia testa.-
Non lo so, non ho più il senso del tempo, mi sono persa e non so che ne è di me. Mi rimani solo tu.
-Io ti ho sentita tre anni fa, me lo ricordo. Sono finito tra i pazzi e ancora non mi hai convinto che io non lo sia.-
Dan, sono felice che finalmente tu mi risponda, ho così tanta paura.
-Facciamo così, io provo ad assecondarti, ma se ricomincio a sentirmi pazzo, sarà meglio che tu sparisca, perché io non sono in grado di sopportarlo ancora.-
Furia aprì gli occhi e Dan pensò che avesse capito tutto, ma non poteva lasciare ogni razionalità alla deriva, si limitò a dargli una carezza.
Mi ricordo che andavo a scuola, studiavo molto perché sono ambiziosa. I miei genitori sono lprofessionisti, mia madre è un chimico e mio padre uno psichiatra.
-Ah, perfetto! Mi mancava lo psichiatra!-
Smettila! Io penso di avere avuto un incidente, non ricordo bene, mia madre piangeva, mio padre gridava, non era mai successo, mai e io avevo paura, poi il buio. E tu, solo tu.
Dan si passò le mani tra i capelli, mentre Furia si lanciò dalla panchina per atterrare con un colpo di voce sfiatato per l’impatto.
Si guardarono e lui sentì che quel botolo era quanto di più vicino a un migliore amico potesse desiderare.
-Sara, ma io non rimango mai solo? Tu sei sempre con me?-
Dan attese, ma non ci fu risposta. Pensò che se ne fosse andata, che fosse stata davvero un’allucinazione.
Non sono un’allucinazione, Dan. Devi credermi.
-Ok, ok, time out. Dammi tregua adesso, ci penso, tanto lo saprai.-
Dan si alzò, seguito da Furia che ombra felice zampettava con la lingua di fuori.
Dan pensava, pensava, senza cogliere concretamente il peso dei propri pensieri.
Sarebbe stato facile, sarebbe stato semplice accettare che uno spirito smarrito comunicasse con lui, piuttosto che venire a patti con la propria follia.
Temeva anche che ad ogni riflessione la voce lo interrompesse, ma in qualche modo la sua richiesta veniva rispettata.
Camminava e osservava e osservando pensava.

4 Pensieri su &Idquo;Negazione-I racconti di Dan .2-

  1. LETTO (III°)
    wow con questa “voce” diventa “particolare”… avevo conosciuto una ragazza che diceva di avere 5 persone che le parlavano nella sua mente… e di colpo lei diventava loro e che so ti diceva “non chiamarmi X, ora stai parlando con il bambino che è in me”, e così parlavi di cose da bambini. Aveva creato il suo mondo con loro intorno, imparato a conviverci ed esserne contenta. Non dimenticherò mai quella conoscenza, chissà se ora è ancora in loro compagnia… Mi hai fatto ripensare a lei. Scusa il blabla 🙂
    proseguo…

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