Correvano sbuffi di candido vapore nel sole che accende le iridi del cielo.
La perfezione gratuita che non teme paragone, un sospiro d’estasi è il miglior complimento.
Intrecciavo le dita ai tuoi capelli e li lisciavo: odore di vento e giovinezza sul tuo viso arrossato e non c’era spettacolo che fosse più degno d’essere ammirato.
Quel silenzio di respiri m’inebriava i sensi e ancora ne vorrei da esserne ebbro.
Sento la seta che scivola sui palmi, memori delle tue ciocche impalpabili.
Nel mio stato immobile ripenso ai nostri corpi allacciati e un brivido caldo m’avvolge.
Non fermo la mano che consola, ma vorrei fossi tu, una volta ancora.
Mese: Maggio 2014
Gravitazione esistenziale
Riporta il sole in mare
e fallo morire
tra onde sonnolente
e piccole ferite.
Getta le nubi dal davanzale
serrando l’uscio
tutto diverso e uguale
nel tuo piccolo guscio.
Scuoti i tuoni dalle spalle
come farfalle stanche
rompi l’esitante passo
sulle nubi bianche.
Gira girando lo strano globo
per forza imperante
l’attrito frena il mondo
Stop, fermo un istante!
Manifesto di un uomo tra tanti
Io non sono rassicurante. Per niente lineare. Ci ho provato, credo. Sembra che le mie zanne si vedano anche quando sorrido.
Il punto è che non m’importa veramente; vorrei piacere quel tanto che basti per non essere giudicato. Non voglio stare nei pensieri, se qualcuno mi nomina, che ci siano due parole spese bene: tutto qui.
Agli altri non penso e vado avanti, se m’incapriccio però, allora mi infiammo, divento un pensiero vivente, sempre lo stesso.
In partenza viaggio leggero, nessun bagaglio, un solo biglietto e se non mi vuole, scendo alla prima stazione.
Io non amo i rifiuti, mi bruciano lo stomaco con tormenti acidi.
Ripenso al sorriso, all’odore e non amo quello spasimo alla mano che protende e afferra il vuoto.
Prima di cadere nel ridicolo, io ferisco e almeno un po’ mi sento uomo, un pezzo intero, di merda a volte, ma intero.
Non voglio lasciare parti di me in manine delicate che mi possano cercare, reclamare. Sono onesto: che nessuno sostenga il contrario. Quel che do lo do generosamente, siccome il cuore è mio e mi serve, posso dare piacere che va e torna e non si perde.
Mi infastidisce pensare che mi ritengano spocchioso, gente che si conforma in abitudini tonde, tutti uguali. Non posso mentire, non posso perdere me stesso e se non amo la gente, io proprio non credo che sia un difetto, forse solo un altro modo di calpestare il mondo. Le mie impronte non calpestano le vostre.
Il mangiatore di carta
Volgeva al termine la giornata fredda: buia, umida e odorosa, di muffa muschiosa, di legno ispessito e libri ingialliti.
Le tende svolazzavano sospinte da gelide folate di vento che penetravano moleste attraverso le crepe nel legno vecchio.
Chiudeva un occhio, colto da sonnolenza e poi, inclinando il capo, barcollava ondeggiando, il mento tremulo in cerca d’appoggio e il petto lontano, troppo lontano! Un sussulto e poi l’occhio si aprì sul mondo stanco, stanco lui e il mondo insieme.
“Eh, bella cosa, proprio una bella cosa…”
Spingendo i braccioli, si alzò dalla poltrona e ogni passo era una sfida contro la gravità e il tempo che lo avevano reso pesante e fragile.
Si sfregò il naso e si stropicciò il volto, un modo come un altro per cercare un contatto, un’illusione di carezza.
Sciaf, sciaf, passo, passo si appoggiò al muro per scrutare il cielo al di là della finestra segnata dalla pioggia, dalla polvere e dall’incuria. Pareva sempre lo stesso cielo, eppure cambiava ogni volta, impercettibilmente, come una nuova piccola ruga, anche lui invecchiava e in qualche modo lo sorvegliava.
Quel cielo che da bambino osservava con impeto di conquista, che da giovane cercava con uno struggimento inquieto, ora celava volti, memorie, canzoni e tutto ciò che aveva coperto.
Sospirò, sospirare gli apriva il respiro, trattenuto dal momento, dal pensiero compresso e poi si sentiva, gli ricordava d’esser vivo, d’avere fiato ancora nei polmoni.
Tracciò col dito il percorso d’una lacrima di pioggia, un percorso incerto, un po’ storto che inevitabilmente discese verso il fondo del vetro.
Ripensò alla sua vita, al suo percorso storto e si chiese per l’ennesima volta se quei giorni di vecchiaia fossero da investire, altrimenti che senso avevano? C’era forse qualcosa ancora da compiere, qualcosa a cui dare un senso? Altrimenti perché? Per trascinare i piedi, per guardare il cielo sporcato da un vetro sozzo?
Niente da progettare, niente da sognare: si può sognare di tornare indietro? Per cosa? Correre, fare l’amore, ridere e magiare o fare a botte ?
Niente più problemi, niente più da perdere, tutto andato, solo quella lunga attesa, quell’aspettare il mattino dopo la sera e non sapere cosa augurarsi.
Una scoreggia e quasi rise, salvo poi sentirsi annoiato anche dei fantasmi di burle finite.
La noia, che brutta bestia! Lascia il sapore di ciò che non si è più mangiato e l’incertezza d’averlo mai fatto.
Avrebbe voluto bramare, agognare, desiderare, ma la sua realtà era ormai oltre, perché proprio non gliene importava più nulla e quello era il nocciolo della questione, l’inizio dell’attesa.
Si trascinò dall’altro lato della stanza, fino a fermarsi mesto di fronte ai suoi compagni di viaggio, coste dai titoli suadenti e luccicanti. Ricordi ormai per occhi troppo stanchi.
Alzò il braccio pesante e passò i polpastrelli sui libri come su tasti di pianoforte, poi si bloccò e ne tirò uno a caso.
“Il castello del cappellaio”.
“Ottimo, è giusto, corretto. Drammatica la vita, drammatica la storia, io solamente un piantagrane. ”
Preso il tomo si riaccompagnò alla poltrona consunta e preso posto, aprì le pagine. Osservò le parole confuse, sospirò e con decisione ne strappò una. La appallottolò e con calma iniziò a masticarla, ruminando sereno.
Lo trovarono che pareva sopito, con un libro aperto in grembo.
Trapelò poi la strana notizia in paese che il vecchio s’era mangiato buona parte della storia.
Goodbye
Ci vuole una dose di stupidità così superiore per non capire, che pure io mi arrendo.
Si salvi chi può, ognuno pare viva per se stesso.
Eppure io sogno di navi aeroplani e serpenti velenosi, tu che mi abbandoni e io che mi umilio per il Bene di tutti noi.
Al mattino il risveglio è così amaro che neppure i baci mai dati potrebbero dolcire.
Ci vuole così poco per non crederci più.
Ci vuole una donna per guardarsi sola e un paio di libri da vivere e morire.
Ho un viaggio in testa che mi chiama e allora la musica s’alza e copre, cenere e fango d’annata.
Goodbye, Goodbye e basta.
Ode to my family (viaggio indietro)
E tutta quella solitudine
Chi l’avrebbe tolta
Chi l’avrebbe spalata
Via dalle spalle
Dai pensieri nervosi?
Dov’erano i grandi?
Dov’era famiglia
Quando tutto cadeva
e una figlia piangeva?
sola piangeva, piangeva?
C’era la musica, sempre
Nei timpani tump tutump
E piangeva nel cuore
Giovane e sciocco
La musica si immergeva.
Ed erano sogni d’amore
Sapere d’aver perso tutto
E mai averlo capito
Un’anima sola si perde
E il mondo la cela, si gela.
Se potessi io adesso
La prenderei per tutto dare
restituire i sogni,le pulsazioni
E pure gli esami mai fatti,
per essere libera, intera.
Dov’erano allora tutti?
A mostrar le spalle!
a ringhiar veleno e saliva
e c’era solo da buttare
O lasciare, andare.
Allora gli occhi mutano
Forma e colore
L’inverno corre le vene
E brucia il cuore,
Ma io sono viva.
Infanzia: definizione by Ciarle
Malattia tipica del fanciullo da cui sono guarita facendomi anticorpi ‘sì grandi da somigliar a due contenitor di testosteroni.