Il mangiatore di carta


Volgeva al termine la giornata fredda: buia, umida e odorosa, di muffa muschiosa, di legno ispessito e libri ingialliti.
Le tende svolazzavano sospinte da gelide folate di vento che penetravano moleste attraverso le crepe nel legno vecchio.
Chiudeva un occhio, colto da sonnolenza e poi, inclinando il capo, barcollava ondeggiando, il mento tremulo in cerca d’appoggio e il petto lontano, troppo lontano! Un sussulto e poi l’occhio si aprì sul mondo stanco, stanco lui e il mondo insieme.
“Eh, bella cosa, proprio una bella cosa…”
Spingendo i braccioli, si alzò dalla poltrona e ogni passo era una sfida contro la gravità e il tempo che lo avevano reso pesante e fragile.
Si sfregò il naso e si stropicciò il volto, un modo come un altro per cercare un contatto, un’illusione di carezza.
Sciaf, sciaf, passo, passo si appoggiò al muro per scrutare il cielo al di là della finestra segnata dalla pioggia, dalla polvere e dall’incuria. Pareva sempre lo stesso cielo, eppure cambiava ogni volta, impercettibilmente, come una nuova piccola ruga, anche lui invecchiava e in qualche modo lo sorvegliava.
Quel cielo che da bambino osservava con impeto di conquista, che da giovane cercava con uno struggimento inquieto, ora celava volti, memorie, canzoni e tutto ciò che aveva coperto.
Sospirò, sospirare gli apriva il respiro, trattenuto dal momento, dal pensiero compresso e poi si sentiva, gli ricordava d’esser vivo, d’avere fiato ancora nei polmoni.
Tracciò col dito il percorso d’una lacrima di pioggia, un percorso incerto, un po’ storto che inevitabilmente discese verso il fondo del vetro.
Ripensò alla sua vita, al suo percorso storto e si chiese per l’ennesima volta se quei giorni di vecchiaia fossero da investire, altrimenti che senso avevano? C’era forse qualcosa ancora da compiere, qualcosa a cui dare un senso? Altrimenti perché? Per trascinare i piedi, per guardare il cielo sporcato da un vetro sozzo?
Niente da progettare, niente da sognare: si può sognare di tornare indietro? Per cosa? Correre, fare l’amore, ridere e magiare o fare a botte ?
Niente più problemi, niente più da perdere, tutto andato, solo quella lunga attesa, quell’aspettare il mattino dopo la sera e non sapere cosa augurarsi.
Una scoreggia e quasi rise, salvo poi sentirsi annoiato anche dei fantasmi di burle finite.
La noia, che brutta bestia! Lascia il sapore di ciò che non si è più mangiato e l’incertezza d’averlo mai fatto.
Avrebbe voluto bramare, agognare, desiderare, ma la sua realtà era ormai oltre, perché proprio non gliene importava più nulla e quello era il nocciolo della questione, l’inizio dell’attesa.
Si trascinò dall’altro lato della stanza, fino a fermarsi mesto di fronte ai suoi compagni di viaggio, coste dai titoli suadenti e luccicanti. Ricordi ormai per occhi troppo stanchi.
Alzò il braccio pesante e passò i polpastrelli sui libri come su tasti di pianoforte, poi si bloccò e ne tirò uno a caso.
“Il castello del cappellaio”.
“Ottimo, è giusto, corretto. Drammatica la vita, drammatica la storia, io solamente un piantagrane. ”
Preso il tomo si riaccompagnò alla poltrona consunta e preso posto, aprì le pagine. Osservò le parole confuse, sospirò e con decisione ne strappò una. La appallottolò e con calma iniziò a masticarla, ruminando sereno.
Lo trovarono che pareva sopito, con un libro aperto in grembo.
Trapelò poi la strana notizia in paese che il vecchio s’era mangiato buona parte della storia.

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