“Ma non l’avevi visto? Sei inutile! Ora raccogli tutto e vattene. No, non nella spazzatura, porta a casa. Sì, hai capito bene: portati via i pezzi passa i prossimi mesi a cercare di incollarli. Imbecille.”
Il capo se ne andò senza chiudere la porta, era aperta, avevano sentito tutti.
Bene, non c’era che da liberare la scrivania. Poca roba, restava tutto all’azienda, e io non ero forse appartenuto all’azienda?
Bussano. Chi diamine bussa a una porta aperta? Qualcuno che ha il naso troppo lungo per non farsi notare.
“Entra Sara. Ci salutiamo da qui.”
“Oh, coome mi di.spia.ce! ”
Le pupille della donna si erano fatte, probabilmente per puro sforzo di volontà, più grandi delle sferiche lenti dei mostruosi occhiali tartaruga anni ’70. Non stile anni ’70, ma proprio d’epoca.
“Sì bè,va bene. Allora restiamo in contatto, ok?”
Con la grazia di un ghepardo sulla preda, mi stava stringendo la camicia tra gli artigli. La miglior Rossella O’Hara.
“Non dirlo nemmeno sciocchino. Domani sera a casa mia. Alle otto. Porta il vino. Bacio.”
Dopo avermi marchiato a vita con il rossetto indelebile color ciliegia assassina, in fase mestruale, esce di gran fretta.
Cazzo, avrei fatto bene ad andarmene in sordina. Quei leccaculo degli ormai ex colleghi, trincerati dietro quelle finte paratie che parevano tante tessere del puzzle da incastrare, non meritavano un secondo sguardo.
Presi le mie poche cose e lasciai quel posto di matti, quell’inferno grigio, sterile e ovattato.
Mentre tornavo a casa speravo che non mi attendesse un appuntamento al buio.
Sara era chiassosa e materna, fastidiosa e meravigliosa, ma ancora mirava a sistemarmi in casa sua.