“Pulitevi bene, se necessario, toglietevi la pelle, ma siate puliti! E le unghie, spazzolatele e tagliatele cortissime, non deve esserci traccia di sporco!”
Vedere la madre così agitata per la visita settimanale dei Savi era sempre un’esperienza sgradevole, sembrava sul filo della pazzia, ma al villaggio nessuno impazziva.
“Siamo una famiglia umile, ma siamo gente a posto. I miei figli non sono inferiori ai figli del notaio e i vestiti saranno semplici, ma sono puliti e non rattoppati. Ci teniamo molto che i Savi vedano in voi ciò che vediamo noi.” Il padre parlava con tono calmo, severo. Poi sorrise loro con tenerezza. “Voi siete perfetti, i migliori figli che avremmo potuto desiderare. Lo capiranno anche loro.”
“Sì padre.” Risposero all’unisono. Kajey e Kahro erano commossi dall’affetto dei genitori e per questo sentivano ancora di più il peso dell’aspettativa, se i Savi li avessero giudicati miseri, ne avrebbero sofferto. I più piccoli, Marion e Melko, erano sereni, perché c’era ancora tempo per loro e non si rendevano pienamente conto di essere già giudicati dalla nascita.
“Andiamo ragazzi, prepariamoci.”
Kajey prese in braccio Melko e Kahro la sua gemella e si allontanarono.
“Moyra, il ragazzo deve sapere.”
La moglie si voltò di scatto con una furia tale negli occhi che al pescatore si spezzò il cuore.
“Non osare Maki! E’ mio figlio, io l’ho allevato, accudito in ogni giorno della sua vita… non c’è nulla da sapere oltre a questo!” Il marito fece per alzarsi e raggiungerla, ma lei lo fermò coi palmi rivolti verso di lui.
“Non puoi farmi questo, non puoi togliermi Kajey, non puoi farmi questo…” I suoi occhi versavano lacrime che lei non si curava di asciugare, il dolore nel suo sguardo era insopportabile.
“Tesoro nessuno ti toglierà mai tuo figlio, lui ti adora, io lo amo come fosse carne strappata dalle mie stesse ossa. Tesoro, lo sai. Penso solo che dovremmo dirglielo per amore suo. Mi strazia vedere lo sforzo che fa per nascondere la sua intelligenza, la sua agilità. Ci ama così tanto che reprime se stesso per noi e poi, non ha i mezzi per capire se stesso.”
Moyra crollò in grembo al marito, il volto bagnato nascosto nell’incavo del collo. Lo baciò.
“Lo so, credi che non sappia tutto questo? Credi che non resti sveglia ogni notte finché non torna, temendo che non lo vedrò più? Ho pena di lui e ho pena di noi. Siamo destinati a soffrire che la verità sia nascosta o che sia svelata.”
“Allora, in questo caso, non è meglio essere generosi e amarlo ancora una volta, dandogli i mezzi per compiere il suo destino?”
La moglie strinse la camicia dell’uomo tra i pugni stretti. “Forse sarebbe contento facendo il pescatore, molte ragazze lo ammirano e potrebbe avere una vita serena, una bella famiglia.” La voce le tremava per la menzogna che spingeva dalle labbra.
“Lo credi davvero cara? Credi che quelle là non lo stiano già osservando? Credi che non sospettino e che non faranno presto la loro mossa? ”
La donna si accasciò sul marito liberando il cuore in un silenzioso pianto disperato.
Il marito la strinse forte ignorando le proprie lacrime.
“Siamo stati benedetti, questi ragazzi sono stati la nostra gioia e noi abbiamo avuto il più grande onore potendoli crescere nella nostra umile casa.”
“Ti prego non Karho, non anche lui. Ti prego, ti prego, ti prego…”
L’uomo la prese per le spalle e la scosse leggermente. “Moyra, ascolta. Si parla della loro sicurezza. Karho qui ha i giorni contati. Quelli come lui non esistono al villaggio lo sai.”
“Già, perché li bandiscono.” La donna ancora si struggeva al ricordo del fratello, esiliato a diciassette anni dal Consiglio Segreto, perché orientato verso il proprio genere. La mamma ne uscì distrutta, tanto che per nascondere il suo stato, la mente non si ammala al villaggio, le diedero pozioni per calmarla. Non fu più la stessa. Fino alla morte che avvenne un anno dopo.
“Sì, li bandiscono e girano già troppe voci su di lui. Il padre di Borg sta aspettando solo che lo caccino.”
“Quel lurido verme, non vale un’unghia del mio ragazzo!”
“Hai ragione, ma suo figlio continuerà a fare ciò che preferisce, mentre il nostro sarà giudicato come un errore da cancellare.”
La moglie lo guardò e finalmente si asciugò il volto decisa. “Noi non lo permetteremo.”
Il pescatore le sorrise teneramente. “No, non lo permetteremo.”
Si abbracciarono stretti, ognuno con le proprie emozioni da rigovernare.
I giorni che tanto avevano temuto, stavano arrivando e la famiglia che avevano cresciuto con tanta devozione avrebbe presto dovuto dividersi.
Mese: settembre 2015
Il villaggio. Lucash si organizza
Nelle tenebre si nascondono le ombre, chi porta luce è un bersaglio mobile.
Lucash sapeva come muoversi, ma la prudenza, la mancanza di essa, gli aveva insegnato la giusta dose di paura a caro prezzo.
Se non fosse stato per lei, oggi lui sarebbe un’altra ombra che vaga nella nebbia.
Se lei non si fosse impuntata per averlo, lui oggi starebbe servendo le anime del villaggio oltre le cime.
Scosse la testa in disaccordo a quel pensiero. No!
“Starei coi miei avi, servendo l’unico Signore per l’eternità.”
Si portò il pugno al petto, e chinò la testa in meditazione.
Il pensiero di Berta era l’unica motivazione per restare, conoscendo la figlia sospettava che potesse non accettare il verdetto del Consiglio.
Si spinse nel folto del bosco, non un fruscio, non un ramo spezzato a segnalare il suo passaggio. Ancora oggi era convinto di essere stato stregato, in quel lontano giorno in cui si era avventurato sulle montagne. Non c’era modo che si perdesse, ne era certo.
Un’unghia conficcata nel polpaccio e Lucash desiderò vendicarsi, finalmente, ma si trattenne per l’ennesima volta.
La gatta lo guardava con sfida, Perla non l’avrebbe lasciato in pace, mai probabilmente.
Ogni giorno immaginava come uccidere quella creatura, amava pensare a metodi diversi, raramente compassionevoli.
Solo un pulviscolo di affetto incredibilmente lo frenava dal compiere l’atto omicida.
La guardò con astio, ma non la cacciò. Non solo era impresa difficile, per cui anche lui sarebbe dovuto rientrare e abbandonare la missione, ma era convinto che per amore di Berta lei sarebbe stata un’alleata, per quanto decisamente odiosa.
Proseguì concentrato, si chiese se quel ragazzo si sarebbe mai mostrato, in ogni caso gli avrebbe concesso un paio di perlustrazioni ancora.
Il figlio del pescatore gli ricordava così tanto il fratello da sentire un dolore sordo nel petto. Avrebbe mai rivisto Dani, il suo scanzonato e ribelle compagno d’infanzia? Si sentiva in colpa, se non si fosse intestardito in quella maledetta spedizione, non sarebbe mai finito tra montagne e poi… e poi? Berta.
Non era possibile immaginare un mondo senza la sua preziosa figlia. Si sentiva ancora peggio per Dani, perché Berta sarebbe sempre stata più importante.
“Ti chiedo scusa Dani, perdonami fratello.”
Non si arrischiò a controllare il felino, sapeva già il disprezzo che avrebbe trovato in quegli occhi ancora troppo umani.
Sperava che per quella notte si sarebbe accontentata di un animale del bosco, lui di certo non le avrebbe offerto il polpaccio senza lottare. Vendetta…
Il ragazzo li seguiva saltando di ramo in ramo, solo un fruscio lieve come un sussurro trattenuto lo manifestava.
Aveva sentito parlare degli Uomini Degli Alberi quando era ragazzo ed era obbligato a passare ore infinite col precettore di corte: erano guerrieri formidabili, i più agili e cacciavano muovendosi da un ramo all’altro come scimmie, soffiavano dardi avvelenati con precisione e non facevano ostaggi. Nessuno era riuscito a coinvolgerli in strategiche alleanze, loro vivevano bene per conto proprio. Disinteressati delle brame del mondo. Qualcuno più avventuroso era capitato a corte, nel corso dei secoli e il nome era rimasto inciso nelle pietre dei Celebri e nelle memorie dei posteri.
Come fosse finito un Ragazzo Degli Alberi al villaggio era un altro mistero. Un mistero che il pescatore di certo conosceva.
Le trappole di Berta erano sparpagliate in posti strategici, come aveva imparato fin da bambina.
Che ragazza sarebbe stata se fosse cresciuta nella sua città? Non poteva immaginarla. Tra danze, belletti e sotterfugi, la sua bellissima Berta così libera, intelligente e onesta.
Fra dieci giorni sarebbe andata dalle zie e Lucash sentiva montare in sé un furore cieco al solo pensiero della figlia in casa di quelle streghe. Vere streghe, proprio nel villaggio in cui era bandita la magia, fattucchieria, o stregoneria che dir si voglia.
Ipocriti! D’altronde come spiegarsi Perla altrimenti?
La guardò incapace di trattenersi e quella stava con lo sguardo rivolto verso l’alto. Ecco, strano che non se ne accorgesse.
Si chiese se fosse possibile che avesse capito anche di chi si trattasse.
Sperava di no, per il ragazzo e per se stesso, aveva progetti da portare avanti e il ragazzo ne faceva parte.
Non le avrebbe permesso di rovinargli anche questo.
Si fermò a curiosare nel tronco cavo di un albero grigio. Estrasse un sacchetto di velluto liso, ne esaminò il contenuto e lo ripose. Controllò intorno a sé che nessuno lo stesse spiando. Nessuno, tranne la gatta e un ragazzo degli alberi, probabilmente ignaro della propria natura. Nel volgere lo sguardo intorno si assicurò di accertarsi di ciò che gli premeva davvero, fiducioso che i due compagni di viaggio non avrebbero capito.
Con un sospiro si voltò e ripercorse il tragitto verso casa. Si stupì che il ragazzo lo seguisse, immaginava che avrebbe curiosato nel sacchetto, invece quella stolta della gatta era rimasta indietro.
Per essere una strega era davvero la più ingenua.
Il villaggio. Rissa al mercato
Karho cercava le parole per catturare l’interesse di Kajey.
Sapeva che Kajey era intelligente, troppo per il futuro che i Savi avrebbero “visto” per lui.
I loro genitori avevano lavorato sodo per tutta la vita e non avevano sofferto; la loro infanzia era stata tranquilla, serena, ma Kajey celava nello sguardo una strana malinconia. Gli pareva a volte che fosse insoddisfatto, proprio come il fratello più piccolo quando non otteneva un biscotto in più e siccome Kajey era estremamente intelligente, Karho aveva capito che la sua insoddisfazione era profonda. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, per aiutare il fratello.
Kajey non poteva immaginare quanto contasse per lui, quanto il suo sostegno, la sua presenza forte gli avesse dato la calma per mantenere il controllo delle proprie inopportune emozioni.
“Parla Karho, siamo soli, sai che ciò che esce dalle tue labbra entra nelle mie orecchie per non trovare più la strada di casa.”
Karho ridacchiò per l’immagine mentale quel detto che gli aveva sempre creato.
“Fra poco si terrà il Consiglio Segreto.”
“Sì.”
“Tu dovrai andare via di casa.”
Kajey fremette impercettibilmente, ma si sforzò di ricomporsi per non incuriosire il fratello.
“Cosa te lo fa pensare? Nostro padre vive e lavora nello stesso posto in cui è nato e suo padre prima di lui.”
Karho lo osservò pensieroso.
“Non devi darmi spiegazioni. Volevo solo dirti che io ho bisogno di starti vicino. Non dimenticarlo. Non ho nessun altro.”
Kajey si fermò di colpo, erano di fronte al grande arco che indicava l’ingresso del mercato. Prese una decisione veloce.
“Karho, non ti dirò che non è vero. Lo so, per me è lo stesso, ma non posso dirti cose che sono una minaccia per te. Ci penserò. Te lo prometto.”
Karho si sporse per afferrargli la camicia in un pugno stretto, la disperazione impossibile da celare nello sguardo lucido: “Non lasciarmi indietro, io non posso Kajey, non posso davvero, anche se volessi.”
Kajey gli strinse il pugno tra le mani, per rassicurarlo: “Lo so, l’ho capito, troverò una soluzione, promesso.”
Karho annuì, più calmo. “Solo, non lasciarmi indietro.”
Il fratello riprese la cesta che aveva lasciato a terra e gli fece cenno di recuperare la propria e varcare l’ingresso per recarsi al proprio chiosco.
Sistemarono la mercanzia su un letto di ghiaccio che compravano da generazioni dalla stessa famiglia che, a quanto pareva, trasmetteva gli stessi talenti ai propri discendenti: tagliare e vendere ghiaccio!
Kajey sbuffò al pensiero, ma si scrollò presto i pensieri negativi. Voleva osservare gli altri e se possibile, cercare di godere del tempo che aveva col fratello minore.
Karho era sereno, ma vederlo così disperato poco tempo prima, l’aveva turbato terribilmente. Sapeva qual era il problema, ma l’aveva ignorato per comodità, era già difficile organizzare da solo il proprio futuro, pensare al fratello sarebbe stato un sicuro fallimento.
Eppure Karho era la persona più importante per lui e il senso di colpa che provava per aver cercato in tutti i modi di convincersi che il fratello era sereno e pronto al futuro che avrebbero deciso per lui, lo stava soffocando.
Di fronte a loro, dalla parte opposta del viale che attraversava il mercato c’era quella strana ragazza, Berta. Stava disponendo i conigli spellati su un letto di ghiaccio e foglie e su di un ampio vassoio aveva esposto le pelli . Aveva anche messo in fila sul fronte, le zampe dei poveri animali, per le varie necessità. Le anziane fingevano di utilizzarle per le proprie ricette, ma si sapeva che il loro scopo era quello di preparare pozioni e unguenti non permessi.
In pochi minuti la gente avrebbe sgomitato per poter prendere il meglio di ogni chiosco.
Si stava già creando una fila regolare.
Karho aveva preso sul serio il monito della madre e stava già chiamando a gran voce le persone nelle vicinanze per acquistare il miglior pesce fresco del villaggio.
Le matrone sorridevano divertite dalla sua foga e intenerite dal suo sorriso gentile. Alcune erano clienti abituali e conoscevano la qualità del loro pescato, ma gradivano comunque le cortesi attenzioni di Karho.
Kajey aveva visto alcuni sguardi di rimprovero, alcune persone che passando scuotevano la testa infastidite, ma non poteva farci niente, sperava solo che il fratello non se ne accorgesse.
“Che bel pesce che abbiamo qui, vero Karho?”
Un ragazzo alto, dai lineamenti spigolosi e la bocca arcigna stava squadrando il fratello con disprezzo.
“Qualcosa non va Borg?”
Quello alzò le mani in segno di resa, ma lo sguardo rimaneva minaccioso. “Calmo Kajey, sto solo facendo i complimenti. Pensavo che tuo fratello li cercasse. Ti piacciono i complimenti vero creaturina graziosa?”
Il ragazzo rise di gusto e presto altri si unirono a lui. Il vigliacco aveva dietro la solita comitiva di scansafatiche.
Karho sembrava impassibile, se non fosse stato per il tremore delle sue mani, Kajey ci avrebbe creduto.
“Andate via, se non dovete acquistare qui, non c’è più niente per voi.”
“Beh, Kajey caro, pensavamo di invitare tuo fratello a farsi un giretto con noi. Siamo stufi di stare tra maschi.”
Kajey strinse i pugni con forza, ormai gli era impossibile trattenersi. “Andatevene o giuro che ogni volta che aprirai bocca sarà solo per gridare pietà!”
Borg sembrava meno spavaldo e deglutendo si guardò intorno per controllare la situazione, ma i suoi compari stavano aspettando con la bava alla bocca e il ragazzo non avrebbe perso la propria reputazione facilmente, seppure pessima.
“Devi solo provarci!”
Con un balzo fulmineo Kajey fu sul ragazzo, una mano sulla gola e l’altra tra le gambe.
“Tu devi solo fiatare e io stringo contemporaneamente. Ti assicuro che non hai idea di quanto sono forte e di quanto poco mi importi delle conseguenze.”
Kajey aveva solo sussurrato, sputacchiando in faccia al disgraziato che ormai piangeva senza fiatare, copiose lacrime scorrevano libere sul suo volto cereo.
“Lascialo, non ti ha fatto niente, era solo uno scherzo!” I suoi amici cercavano di convincerlo, perché sapevano che se li avessero beccati a fare rissa un’altra volta, sarebbero tutti comparsi davanti ai Savi e le conseguenze sarebbero state pesantissime.
“Lascialo, Kajey. Ti prego.”
L’unica voce che passava le spire della sua furia.
Aprì le mani contemporaneamente e spinse il codardo violentemente. Con un tonfo quello piombò a terra e fu in un lampo lontano dalla vista con i quattro amici con cui scorribandava sempre.
“Scusa Karho, ho perso il controllo.” Il fratello gli sorrise e gli strinse il braccio.
“Lo so che capisci Kajey.”
“Sì.”
Il villaggio. Kajey
Sospirava Kajey mentre sventrava i pesci nella cesta.
Sperava con tutto il cuore che il Consiglio avrebbe visto in lui i veri talenti che celava anche al padre. La sua era in parte una sfida ai Savi che decidevano il destino di ognuno. Possibile che quasi sempre i talenti di un giovane coincidevano con le aspettative della famiglia o con le necessità del villaggio?
Lui non era un pescatore, era un dannato cacciatore!
Non lo sapeva nessuno. Kajey seguiva la pista di una preda con infallibile precisione, ma il suo scopo era di gran lunga più ambizioso.
Kajey si stava preparando a cacciare uomini.
E donne e ragazzi.
Kajey, fin da bambino aveva deciso che avrebbe trovato i banditi e aveva anche capito con il solito affidabile intuito che questo sarebbe dovuto essere il suo più grande segreto. La madre e il padre erano ignari, così come i fratelli che mai avrebbe esposto all’inquisizione da parte dei Savi.
Certo, nessuno aveva mai giudicato sbagliato il Consiglio,
Kajey osservava, da buon cacciatore, osservava i volti, i tremiti, le incertezze sui volti degli altri. Le anziane si inchinavano e baciavano le vesti dei Savi, quando facevano la visita settimanale, ma il dolore nei loro occhi, quando insegnavano le filastrocche ai bambini era tangibile.
Aveva chiesto alla madre di raccontargli le storie dei nomi che conosceva così bene, ma quella si era arrabbiata e aveva battuto forte col mestolo, intimandogli di non fare mai domande sulle filastrocche: si imparano e basta, non se ne parla.
I fratelli erano più miti e mai una volta li aveva beccati a curiosare, a domandare una spiegazione in più.
Kajey aveva imparato presto a mascherare la brama di verità che lo infiammava fino alle ossa.
Si divertiva solo quando cacciava, non aveva mai ucciso le sue prede, il suo scopo era trovare.
Era spesso tentato di liberare i conigli di Berta dalle trappole, ma provava più compassione per la ragazza che per i conigli e non le avrebbe tolto una fonte di sostentamento con leggerezza.
Doveva ammettere che la trovava in gamba, ma preferiva scrutarla da lontano, nascosto dai cespugli o ritirato tra le fronde di un albero robusto piuttosto che avvicinarla. Non era bravo a socializzare e il modo migliore per conoscere davvero qualcuno era osservarlo quando era se stesso.
Si è se stessi solo quando si è soli con se stessi, ormai ne era convinto.
“Hai finito col pesce?”
“Quasi madre!”
“Sbrigati e poi accompagna tuo fratello che così impara a venderlo. Non sappiamo se i Savi ti lasceranno fare il pescatore.”
Kajey grugnì. Di certo non gli avrebbero affidato l’incarico di insegnante, o notaio del Consiglio. Chissà come mai a un figlio di pescatore non capitava mai. Eppure Kajey era il migliore allievo a scuola, ma proprio perché era intelligente, capiva come funzionavano le cose.
“Karho! Preparati che andiamo!”
In un istante il fratello di un anno minore gli si presentò davanti. Il suo sorriso era radioso, l’adorazione nei confronti di Kajey indiscutibile.
“Mi lavo le mani e andiamo, stavi aspettando, eh?”
Karho arrossì lievemente. “Sì, sapevo che oggi saremmo andati insieme. Nostro padre si fida di noi, di me, perché di te so già che si fida. Sono onorato di potergli dimostrare che so fare il mestiere. Spero che non ti deluderò.”
Come poteva solo pensarlo? Kajey era il suo migliore amico, non solo un fratello, era difficilissimo non confidargli i suoi pensieri, i progetti, ma doveva proteggerlo ad ogni costo.
“Non mettere mai in dubbio che io ti stimi. Non potrai mai deludermi, piuttosto spero di non farlo io.”
Il ragazzo sgranò gli occhi sconvolto.
“Che intendi? Tu non puoi deludermi, è impossibile Kajey!”
Gli sorrise e gli arruffò i capelli, ormai era alto quasi quanto lui ed era sciocco farlo, ma era l’unico modo che conosceva per esprimergli l’affetto che provava.
“Prendi la cesta col pesce pulito, io prendo l’altra.”
Così si incamminarono, dopo aver salutato la madre e il padre.
Kajey sentiva imminente il cambiamento e non solo perché il Consiglio presto avrebbe deciso del suo futuro per sempre, ma perché sapeva con certezza che lui avrebbe dovuto fare scelte pericolose e il suo cuore accelerava fastidiosamente al pensiero della solitudine che l’aspettava.
Sbirciò il fratello che sorridente camminava al suo fianco, ignaro del suo turbamento il ragazzo era l’immagine dell’innocenza e della serenità.
Gli sarebbe mancato più di chiunque altro.
Il villaggio. Alla pozza
“Qui, è tutto sistemato.” Berta, soddisfatta del suo operato, si allontanò dalle trappole strategicamente piazzate nel cuore del bosco. Si incamminò saltellando allegramente, nel suo scorribandare cominciò a canticchiare come sempre, la solita nenia.
tra le zanne la belva aspetta,
la bocca aperta,
la gente non sa
che il passo avanzando
nessuna fretta
poi si perderà,
ha preso cuori di uomini forti
coperto di nebbia
le menti confuse
a casa cessa l’inutile attesa
di gente che più
tornare non sa.
degli scuri questa è la terra,
la nostra canzone
ti condannerà.
La ragazza non pensava alle parole, come tutti i bambini della valle, cantava a memoria la canzone che conosceva da sempre, come una preghiera. Non faceva caso al vento gelido che si alzava nel frattempo, al cinguettio che si spegneva, agli animali che si dileguavano. Saltellava ignara colma di energia e desiderosa solo di godere la vita.
Giunta allo specchio d’acqua che chiamavano “la pozza”, essendo una piccola raccolta d’acqua probabilmente alimentata da un rivo d’acqua sotterraneo, si mise seduta con un balzo su un tronco adagiato sulla riva.
Immerse i piedi sporchi nell’acqua fredda ridacchiando per il solletico alle dita.
Il freddo la calmava e questo le permetteva di riflettere, cosa per lei inconsueta. Capitava sempre più di frequente che si ponesse domande, ma non lo riferiva a nessuno, neanche al padre, perché sapeva di andare contro il volere dei Savi.
Nessuno aveva mai contraddetto le regole, nessuno aveva mai posto dubbi, lei stessa non si spiegava i propri pensieri e temeva di essere pazza, ma la pazzia era solo una leggenda.
Nessuna malattia al villaggio, nessuna debolezza, erano concetti frutto della fantasia. Le fiabe del crepuscolo narravano di lotte, battaglie, creature avide e rovesci di potere, gente sola e disperata. Il monito dei genitori ai figli era chiaro: abbandonare le regole significava perdersi e trovare solo desolazione. C’era un mondo sconosciuto al di là delle montagne, un mondo avverso e pericoloso. Berta non ricordava di gente bandita, ma le vecchie portavano ancora i nomi nella memoria dei propri cari smarriti, non sembrava però che li usassero per intimorire i piccoli. Nomi che venivano sussurrati, nascosti in filastrocche segrete, tramandate ai figli per non dannarli alla nebbia delle montagne.
“Gordon capello d’oro, con Rico lesto di lancia, in viaggio con Dora dalla Vista e Gilda la sarta, trovano Tharo voce tonante e Mirta la ricca di grazia; insieme a Fusto il giovane e Saro il fabbro per mano con Lidia la bella e Visco il mano di ferro, sono in grande compagnia: Juno il pescatore, Lucio il cantore, Vianna la sposa con Frida la gioiosa, poi Radho il bugiardo e Dogo che mai riposa, Lara occhio di falco e Gricio il vinaio…”
I nomi erano scolpiti nella memoria, mai trascritti, mai rivelati, solo sussurrati nella filastrocca segreta. I Savi non ne erano a conoscenza, nessuno dei bambini sarebbe diventato uno di loro, perciò le madri non temevano che il segreto sarebbe stato rivelato.
Berta si chiedeva come mai i Savi non morissero. Sapeva che la gente invecchiava e inevitabilmente la vita arrivava alla sua fine. Bastava rispettare le regole e ognuno sarebbe vissuto per l’eternità oltre la nebbia, in case d’oro dagli atri coperti di gemme preziose serviti da coloro che si erano persi nella nebbia, banditi per sempre.
“Perché dovrei farmi servire dalla mia gente?”
Piccoli pesci guizzavano tra le sue dita, mentre la ragazza intristita rifletteva.
“Berta che non ride e grida a squarciagola? Questa sì che è una cosa insolita!”
“Zia…” Aveva sentito? La donna dall’aspetto macilento le si era già seduta affianco.
“Tuo padre ti lascia ancora in giro come una monella? Sapevo che un uomo non sarebbe stato in grado di crescerti nel modo giusto. Quant’è testardo!”
“Zia, papà non mi ha fatto mancare niente, io mi sto preparando alla chiamata del Consiglio. Non devi temere che faccia brutta figura.”
La zia sbuffò impaziente. “Berta, la tua povera madre ti avrebbe già insegnato a essere una donna rispettosa delle regole, elegante e colta. Sei deliziosa, per fortuna, ma ti manca la conoscenza, se tu vivessi con noi, saresti pronta per un ruolo di grande rilievo. Cacciare conigli, per carità, non oso pensarci senza che mi venga un colpo!”
“Eppure stai bene…”
“Vedi? Sei sfacciata e neanche te ne rendi conto!”
A Berta pareva che la sfacciata fosse la zia, ma non era così gretta da esporlo ad alta voce.
“Vogliamo che alla prossima luna piena tu venga a stare da noi per un ciclo, tuo padre sarà d’accordo. Cerca di non protestare. Noi pensiamo solo al tuo bene.”
“Lo so zia.” Nulla la convinceva di meno, ma da tempo aveva deciso di capire meglio le cose incerte, perciò aspettava l’occasione per studiare da vicino le zie e le loro manovre.
“Brava, mi sorprendi.” Lo sguardo della donna era penetrante e Berta aveva l’impressione di ingaggiare una lotta fisica con lei, come se stesse cercando di penetrarle la testa.
Con un sopracciglio alzato la zia girò il capo e per un po’ rimase ad osservare l’acqua immobile, assorta.
“Bene, sarà interessante. Molto. Faremo un gran lavoro insieme.”
Con un ultimo sguardo, meno duro e più assorto la donna si congedò.
“Alla prossima luna piena.”
“Non mancherò.”
Il villaggio
C’era una volta e forse c’è ancora, un villaggio sconosciuto al mondo. Ciò si doveva al fatto che si appoggiasse sul dolce declivio di una valle nascosta tra le ripidissime vette di una catena montuosa maledetta.
Tali vette erano ritenute infauste dato il numero di morti che annoverava: nessuno, da che si sapesse, era mai tornato da quelle cime. I viandanti che attraversavano quelle terre, si segnavano alla vista di quelle zanne minacciose e tacevano per tradizione, fino a quando erano certi di averle lasciate lontane. Temevano infatti di esprimere desideri o timori involontariamente e che spiriti dispettosi sarebbero scesi dalle vette stregate per realizzare i loro incubi peggiori.
Le mamme ammonivano i figli raccontando le storie di povere anime impazzite al solo passaggio in quelle lande desolate.
I ragazzi credevano e temevano la maledizione poiché in ogni villaggio c’era qualche esempio vivente di guscio umano.
Tutti ignoravano perciò che aldilà di quelle ripide montagne ci fosse la vita, persone che abitavano pacifiche ignorate dalla curiosità umana.
La vita in quel villaggio scorreva tranquilla, ognuno aveva il suo mestiere e collaborava per il benessere comune.
Non c’era modo di essere ricchi, ovviamente, poiché la ricchezza deriva dal maltolto e non ci sono bottini senza guerre e conquiste in terra altrui.
Berta amava mettere trappole per conigli, era la sua abilità. Il padre rimasto solo, cercava di lasciarla libera per quanto possibile, temendo di frenare il suo fare gioioso. Ovviamente i Savi avrebbero presto deciso del destino della ragazza, votando in Consiglio Segreto. Fu così che Berta restò isolata dagli altri, per quanto concesso, felice di sgattaiolare fuori di casa appena finite le poche necessarie faccende domestiche.
La ragazza ignorava il perché della malinconia del padre, avendo perso la madre da piccola, non si stupiva dello sguardo assente. Lucash preferiva così, inutile raccontarle di posti lontani, di persone care e mai riviste, tanto più che se i Savi l’avessero scoperto a parlarne, sarebbe stato bandito a vita.
Essere bandito dal villaggio significava vagare senza mezzi, in cerca di impossibili vie attraverso le cime maledette.
Un suicidio senza lettera, un omicidio con mani pulite.
“Senti papà, ho trovato un posto perfetto per cacciare, vedrai quanti conigli venderò al mercato, ti potrai comprare l’unguento per la gamba!”
Lucash sospirò commosso, sua figlia lo adorava e avrebbe fatto qualsiasi cosa per vederlo felice e in salute.
“Berta, piccola, voglio che al mercato questa volta compri la più bella stoffa per confezionarti un abito. No, non discutere, é necessario. Lo sai.”
La ragazza sbuffò, ma il sorriso le tornò in fretta, le era impossibile intristirsi a lungo.
“Va bene, così le zie saranno soddisfatte e noi staremo in pace per un po’. Sono proprio decise, eh? ”
Lucash ridacchiò, perché quelle megere erano totalmente decise a liberarsi di lui e mettere le grinfie su Berta.
“Tu fai come ti dico, io ti confezionerò l’abito più bello che si sia visto e loro saranno obbligate a ritirarsi nel loro covo.”
Berta rise divertita, entrambi sapevano che nelle storie raccontatele da piccola per addormentarla, Lucash descriveva una delle zie quando appariva una strega. Una delle tre, a rotazione. Berta se ne era accorta presto e spesso il modo in cui approcciava le zie era stato motivo di ansia e imbarazzo per il padre. La colpa era sua, ma ne era valsa la pena.
“Se cresci ancora un po’, dovrò fare una casa più grande. Vai a spendere un po’ di energia va’ !”
Berta baciò il padre sulla guancia ruvida e corse via senza richiudere la porta. Lucash non la sgridava mai per questo, approfittava della svista per scorgerne la sagome in lontananza, fino a che spariva nel folto del bosco.
“Va tutto bene, ancora.”
Si alzò senza smettere di osservare la gatta sulla sedia a dondolo.
“La proteggerò sempre, come puoi vedere.”
Si sollevò l’orlo del pantalone, avvolgendolo fino al ginocchio.
“Prego, serviti pure.” La gatta con un balzo fu sul suo polpaccio, azzannando la carne senza pietà.
Lucash aspirò l’aria tra i denti, il dolore era forte, come sempre.
“Solo il sangue Perla, lo sai, non imbrigliare.”
La gatta si staccò e per dispetto lo graffiò sul segno del morso. Il bruciore era insopportabile.
“Vado a ripulirmi, spero starai bene ora.” L’animale gli aveva già voltato le spalle acciambellandosi nuovamente sulla sedia comoda.
“Va tutto bene…”
Un uomo, un presidente.
Nel cuore dell’anima, nel nocciolo duro, sono rimasto un uomo.
Lo dico a me stesso, nulla con cui potrei convincere gli altri. Non è un proclama efficace, per quello ci sono gli slogan elettorali, le promesse, il programma di buone ed efficaci intenzioni.
Parlo al mio riflesso. Lo squadro con occhio critico. Nudo, sono in ottima forma, mai stato meglio.
Non provo soddisfazione, so di essere in alto, tanto che manca l’ossigeno a volte.
La corsa, come si dice spesso, è la parte migliore, una volta arrivato ci sono gli altri, le aspettative, le minacce, il disappunto e tutto ciò che non ha niente a che fare con la voglia di dare tutto me stesso.
Quando corri sei tu, solo, ti misuri con te stesso, spingi, stringi i denti e osservi gli altri da una distanza di sicurezza. Stanno lì, pronti ad assalirti, osservano, giudicano, ma finché la prova non è conclusa, restano sugli spalti.
Poi, inevitabilmente arriva il traguardo, perché è come se ti piombasse addosso, tu continui a correre e non sembra affatto di tagliare il nastro, piuttosto sembra un impiccio che mette fine a tutto.
Ora, sono più solo che mai. Non mi fido di nessuno, nemmeno di me stesso. Ho perso la mia identità.
La stima di me è cosa andata da tempo, cerco di credere che ci sia gente decente a questo mondo, ma ho la certezza che l’innocenza si mantenga con la stupidità e l’ignoranza, perché chiunque sappia come gira il mondo non può che aver perso ogni illusione.
Vorrei cose che non avrò mai più, perché non ci credo. Per avere la posizione più alta, ora mi trovo solo, osservato e so che mi vogliono vedere mentre cado rovinosamente. Anche l’anima più tranquilla prova un brivido di eccitazione quando un potente cade dalla cima della torre; fa apparire migliore la sua vita, pensa di raccontarsi una bugia, ma io so che la sua vita è migliore.
Con le migliori intenzioni ho scavalcato i gradoni di questa ziggurat e ad ogni salita mi sono sporcato un po’ di più.
Ogni volta che sono riuscito ad avanzare, ho capito che non sarei stato né avrei fatto ciò per cui mi arrampicavo, ma ho proceduto ugualmente. Mi sono detto che sarei comunque stato meglio io di un altro, che non avrei fatto gravi danni alla popolazione, che avrei impedito così che un altro folle invasato spargesse sangue nel mondo.
Ho tradito tutti, sono migliore del mio antagonista, sono migliore di tutti loro, ma non ho fatto nulla di ciò che avrei dovuto.
Non è possibile, semplicemente. Se fossi onesto me ne andrei, lasciando il mio posto allo sciacallo, ma sarei ancora me stesso fino in fondo. Non posso denunciare il sistema, ridicolizzerei me stesso e la mia ipocrisia; come chi arriva alla sorgente di vita, scopre che è acqua putrida e tornato a casa, cerca di convincere gli altri a non intraprendere il viaggio. Non funziona, non gli crederebbe nessuno, penserebbero solo che ho vinto, ho preso e che non voglio che altri possano farlo dopo di me.
Ho collaboratori in gamba, gente incredibile davvero che crede in me e se li deludessi, in un attimo salterebbero sul mio cadavere ancora caldo. Deluderli significa sviare dal percorso stabilito. Non sono io a capo della nazione, io sono solo quello che batte il martelletto, quello che appone la firma.
Mi guardo e vorrei piacermi.
Immagino che sceso da queste scale, passerò il resto della mia vita a cercare di salvarmi dalla dannazione che mi avvolge.
Per amore della Patria ogni uomo rinunci a se stesso per il bene comune, facendolo si focalizzi su quel bene e non tradisca la propria missione, la quale è sempre concordata da persone assetate di potere, sangue e ricchezza.
DNA in scadenza. Il tempo è giunto a termine.
Hanno detto che siamo in scadenza, segnati.
E’ facile, chi sa decifrare il DNA ci metterà poco a interpretare le cifre, il codice è chiaro: siamo gli ultimi, l’esperimento è giunto a termine.
Lo capisco, eppure vedo il potenziale inespresso, ma loro dicono che abbiamo barato, siamo andati contro le regole, il patto non è stato rispettato.
Non immaginavano, l’immaginazione non gli appartiene d’altronde, che saremmo usciti dagli schemi.
La nostra sete di potere li ha sconcertati e anche la singolare individualità dell’essere umano.
Per fortuna finiamo per seguire in massa i leader designati, ma non gli crediamo.
Le nostre idee sono state motivo di studio approfondito, peccato che presto si siano annoiati con noi.
Hanno sensazioni, impulsi intensi, ma la gamma di emozioni umane non la comprendono.
Ci rende difettosi, questo rincorrere la felicità, la libertà, l’amore.
Dovremmo essere efficienti e il senso di fratellanza serve a tenerci compatti e più organizzati, invece noi proviamo empatia e cerchiamo l’espressione del singolo come liberazione di tutti.
Non c’è modo di salvarci, il tempo sta giungendo allo zero, si può già riconoscere l’implosione a cui ci stiamo portando.
Vorremo cambiare le cose e questo senso di ribellione è molto sgradito, ma non intervengono spesso perché non siamo in grado di reagire in modo efficace.
I leader delle nazioni proseguono nel compito di guidarci verso la nostra ultima destinazione e per quanto siamo convinti che ci siano conflitti tra le massime potenze, i leader svolgono solo il compito loro affidato.
Nessuno schieramento reale, i loro sono solo compiti da eseguire per un interesse comune: fine dell’esperimento Umanità.
Saperlo non ci rende privilegiati, ma nuove Cassandra della fine dei tempi. Nessuno di noi parli, chi ci ascolterà?
Non sappiamo chi tra noi siano gli altri Consapevoli, ma stiamo trovando il modo di contattarci.
Seppure internet ci è stato consegnato per motivi precisi di divulgazione di massa, noi siamo riusciti a cambiarne lo scopo una volta ancora e per quanto ci siamo sviliti nella maggior parte dei casi, siamo stati in grado di renderci irrintracciabili nella moltitudine.
Rischiamo, ma sappiamo già che sta finendo tutto, perciò la Consapevolezza ci dà una forza e un coraggio che non è stato considerato.
Credono che la parte animale da cui deriviamo abbia poco valore e questo è il nostro punto di forza.
Non concepiscono il nostro contatto costante con gli animali, considerano il fascino che nutriamo per loro un’inconscio riconoscere la nostra provenienza e ciò ci rende primitivi.
Stiamo cercando in ogni modo di tagliare i fili delle loro connessioni per recuperare altro tempo.
Cerchiamo di essere più sani per durare di più, ma non è facile andare contro i mezzi di massa che strategicamente utilizzano: medicine che ci intossicano, cibo contaminato e modificato, energie che ci avvelenano.
Lo sanno un po’ tutti, ma è impossibile, sembra, cambiare rotta.
Noi siamo i marinai che con la propria forza remano verso acque tempestose perché incapaci di cambiare rotta.
Il tempo sta finendo.
La migliore decisione possibile
Ogni cosa scorre, tutto si accumula e continua ad arrivare, mi basta uno stop per essere schiacciato, mentre continua ad arrivare.
Se solo si fermasse ogni tanto, qualsiasi cosa: le persone che chiamano, che si aspettano cose da me, il lavoro che non si può demandare e le faccende più umanamente necessarie.
Vorrei spegnere il telefono per due giorni interi, ma non si può fare a meno di voler passare chissà quanto tempo a dimostrare di essere mentalmente stabile.
Siamo tutti connessi, talmente collegati che a voler staccare i fili, solo un attimo per pietà, ci si deve giustificare, perché è un torto che si fa agli altri.
Questo è un girotondo che non arriva mai alla fine, non ci si butta per terra e non si ride più.
Si continua a girare e all’inizio è così stimolante, così bello stare insieme, fino a quando la presa nella mia mano è diventata una morsa, fino a quando il sudore sulla fronte mi ha impedito di distinguere i volti e le voci degli altri sono diventati frase insensate.
Anche tu, che mi hai preso il cuore, vorrei potessi restituirmelo per un paio di notti, perché vorrei dormire senza preoccuparmi.
Vorrei non pensare ai tuoi sguardi, ai tuoi rimproveri, alla delusione che ormai viaggia tra noi, come un avvoltoio in attesa del primo che soccombe.
Vorrei che il mio desiderio fosse libero, i miei sentimenti chiari e le relazioni prive dei solidi nodi , tutto liscio e trasparente.
Cammino con la bocca amara, lo stomaco pesante e il passo trascinato di malavoglia.
Guardo intorno e svolto verso un’altra zona, oggi mi defilo.
Col cuore in gola che mi soffoca e mi ricorda di avere ancora sangue nelle vene, afferro il cellulare, maledetto guardiano del mio tempo e lo spengo. Un gesto idiota che equivale a un’evasione da carcere di massima sicurezza.
Mi tolgo la giacca e slaccio la cravatta, che getto nel primo cestino. Inizio a ridere e allungo il passo, perché CAZZO sono già più leggero.
Entro in un tabacchino e compro un pacchetto di sigarette, non le tocco da dieci anni e non so neanche se ne accenderò una, ma solo sapere che se mi va posso farlo, mi fa sentire libero.
Sono tentato di prendere una rivista porno, tanto per, ma chi lo fa più? E mi rendo conto che è parte di tutto quello che mi pesa sulle spalle: tutto pronto, fruibile, piatto e insulso.
Devio per il parco e camminando nel verde decido di levare le scarpe e i calzini: l’erba non è morbida come piace scrivere nei romanzi, punge ed è pure meglio, perché so che è reale.
Ho voglia di gridare, di cantare a squarciagola e spogliarmi di tutto. Che fosse stata così esaltante l’illuminazione di San Francesco?
Mi sento vivo, ho voglia di toccare, annusare e riempirmi gli occhi di tutto.
Sento il suo sguardo come una coperta avvolta sulle spalle e voltandomi scopro il suo sorriso.
Mi stupisco e mi rendo conto che sta rispondendo al mio, non ho smesso di sorridere da quando ho cambiato rotta.
Mi avvicino ipnotizzato e mi fa posto sulla panchina senza parlare e per questo sono immensamente grato.
Ci guardiamo e basta. Non riesco mai a guardare a lungo qualcuno, perché non sopporto che mi si guardi dentro e ancor meno voglio rovistare nella mente degli altri, è la più grande intimità e io ormai non voglio più condividerla. Specialmente con te che mi hai tolto anno dopo anno ogni idea di me stesso.
Sospiro, vinto dall’emozione, vorrei quasi morire adesso, per concludere con questa completa serenità nel cuore.
Non voglio vivere i momenti dopo, la realtà che sporca tutto, i dubbi, i bisogni, i sogni infranti.
Mi osserva e so con certezza che mi sta leggendo come io leggo la comprensione nei suoi occhi.
Avvicina il suo volto al mio, appoggia la guancia alla mia ed è perfetto.
Sento il suo respiro che scalda il mio orecchio, un brivido caldo lungo la schiena e inconsapevolmente mi ritrovo a scorrere col palmo la sua schiena.
Con le dita sfiora il mio volto e mi asciuga lacrime che non sapevo di aver versato. Si avvicina con lo sguardo colmo di tenerezza e lecca le ultime tracce della mia tristezza.
Sono talmente duro che ho paura di mettermi in imbarazzo, potrei umiliarmi se continua così. Non mi sono mai sentito così.
Le mie labbra catturano la sua bocca e io non esisto più, non sono altro che vita che scorre e fuoco che brucia.
Voglio restare sulla sua lingua, nascondermi tra le sue labbra per sempre.
Ha il sapore di un dolce calore, mi sento oltre, credo di sfiorare il senso, di capire appena, e ho bisogno di essere qui in questo momento, di avere di più, di dare di più.
Si avvicina e siamo aderenti, due cuori in tumulto, mentre le mani scorrono e pressano, sfiorano, memorizzano forme e anse.
Bevo dalla sua bocca come un disperato e non mi curo di nulla.
Le sue labbra scendono sul collo e bacia, morde e succhia la mia pelle.
Mi umilierò, non posso resistere.
Ricatturo la sua bocca, la sua testa presa nella morsa delle mie mani, trasmetto tutto ciò che provo.
Ho deciso e non cambierò idea.
Ci guardiamo e vedo la stessa emozione, allo specchio.
“Ti amo.”
“Lo so.”
“Ti amo.”
“Lo so.”
Sono libero.
Il primo bacio
Mi ha chiesto di aspettarlo qui, dopo l’allenamento.
Ho accettato, ma non c’era modo di alzare lo sguardo, ora mi vergogno terribilmente per la figura da imbranata.
Questa cosa nuova mi turba, lo volevo, ma ora desidero solo tornare indietro, magari di un giorno.
Guardarlo passare con le amiche e sospirare è stato sfibrante, volevo che mi notasse, non ho sognato altro.
Il suo volto impresso nelle mie palpebre abbassate mi ha accompagnato ogni sera.
Ora sono sola e non sono abituata ad affrontare da sola, questo.
Questo non so cosa che è un’incognita. So accettare le mie emozioni, so vivere il mio bisogno di lui, ma non so assolutamente come interagire con lui.
Fino ad ora ho potuto immaginare e lo so che non mi basta, ma non sono pronta alla certezza. Saprò se gli piaccio, saprò se mi piace davvero.
Potrebbe ridere di me, potrebbe intimarmi di smetterla di guardarlo. Potrebbe non piacermi così tanto, come è successo con Gianni che alla fine l’ho evitato per giorni, perché non potevo sopportare di ferirlo e chiarire che non mi piaceva come credevo. Come speravo.
Non voglio dare un bacio di cortesia, per non ferire i sentimenti, per non umiliare e soprattutto fare la figura dell’idiota.
Eppure mi piace, mi piace in un modo esagerato, troppo. Voglio queste emozioni, allo stesso tempo però vorrei sentirmi in pace, così potrei concentrarmi su me stessa e gli obiettivi da raggiungere.
Come faccio a studiare quando mi sento così, ma non dovremmo andare a scuola a trent’anni, quando le emozioni sono più chiare?
Hanno finito, stanno passando i suoi compagni, che imbarazzo assurdo… uno ride e dà una gomitata all’altro, quello dietro mi fa l’occhiolino e quattro mi guardano male. Che c’è?
I maschi sono cretini, sempre gelosi delle ragazze degli amici, ma se non ci ho praticamente parlato ancora!
Mi volto di spalle, non ce la faccio, proprio non riesco ad affrontarlo, mentre si avvicina, mi sento la faccia di gomma.
Devo solo dare un’occhiata, veloce.. eccolo! Mi sorride e alza il braccio, aumenta il passo e comincia a correre.
Il mio cuore.
Posso avere un infarto adesso? Si è mai sentito che l’emozione sia fatale?
Non ce la faccio, non ce la faccio.
Troppo bello, è così sicuro, non so che dire.
“Ehi, mi hai aspettato.”
Il suo sorriso è il sole. Non so evitare di sospirare.
“Certo, eravamo d’accordo. Vero?”
Guarda in basso e si preme la mano sul petto, forse non è così sicuro. Di me?
“Ok, scusa. Camminiamo, e poi, non so , ti offro qualcosa da bere?”
Non saprei dirgli di no, neanche se dovessi e non voglio comunque.
“Certo, sì. Grazie.”
Camminiamo in silenzio e la sua spalla sulla mia brucia, le sue dita sfiorano le mie mentre le braccia oscillano seguendo i passi.
Lo sbircio con la coda dell’occhio e anche lui mi sta sbirciando. Ridacchiamo e la tensione si allenta finalmente, ma l’emozione è alle stelle.
Passiamo in una zona tranquilla e lui si ferma di colpo.
Lo guardo.
“Scusami.” Sussurra.
“Per cosa?” Ha cambiato idea?
Lascia cadere il borsone con un tonfo e mi abbraccia, sento il mio cuore o forse il suo, sembra stia per scoppiare.
Strofina la guancia sulla mia, sospira, le sue mani tremano sulla mia schiena, si allontana leggermente e le sue labbra sono sulle mie.
Il mio primo bacio, bellissimo, nostro, indimenticabile, unico.