Le malelingue


“Vedessi come si è conciata!”
Mi dà un colpo sul braccio, stringo i denti e annuisco. Vorrei bloccarla sul nascere, ma so che ad annuire faccio prima a non dar corda, spero la smetta.
“No, ma tu non ti rendi conto: sciatta, coi capelli sporchi, ma è modo? Ti pare.”
“Già, magari non sta bene.”
Altro colpo sul braccio. Stringo i denti e la presa sul volante.
“Macché, è sempre stata così! Si crede chissà chi e invece se si guardasse. Vedessi i figli, che vergogna…”
Mi sale la bile , ne sento il sapore bruciante in bocca, penso a una sigaretta spenta sul palmo della mano. Sarebbe meno dolorosa? “Mi pare che i figli se la cavino bene, sono in ordine, bene inseriti.”
Mi guarda con tanto d’occhi e ommioddio ho sventolato il drappo rosso di fronte al toro e ora mi arrangio, cavoli miei.
Parte l’acuto e la voce si imposta in falsetto, sorrido negando la mia irritazione, non è possibile che il mio sguardo inganni, vero?
“Ma se la ragazza va in giro coi capelli unti, la evitano tutti. Sono una famiglia così, tutta gente così.”
Io mentre mi tappo la bocca, e lascio il monologo andare avanti fino ad esaurimento spontaneo, penso e mi domando che ha fatto ‘sta gente di male, non lo so. Cosa importa a Bruna l’igiene altrui? Ogni volta che ci vediamo è la stessa storia, persona diversa.
La guardo e le sorrido, perché le voglio bene e mi dispiace che qualcosa in lei la faccia sentire così inadeguata da aver bisogno di demolire tutti e per tutti intendo l’intera umanità. Non mi illudo di essere esente dalla sua lingua affilata, è impossibile. L’occhiata che ha dato all’auto impolverata era un programma. Qualcuno, e per fortuna non io, sorbirà le sue invettive contro la mia trascuratezza. Per fortuna non mi importa.
Tornata a casa, mi chiudo in bagno e sospiro, sfiato, cerco aria.
Vorrei non aver bisogno di piangere la frustrazione che mi soffoca. Impossibile.
Insopportabile guardare nelle pieghe private degli altri, insopportabile ferirsi l’anima ascoltando veleno mortale spillato così generosamente.
-Non ce la faccio più.- Ansimo, piango una colpa non mia e penso ad ogni persona inconsapevolmente maltrattata che mi risulta simpatica per empatia.
So che non saprò dire no al prossimo viaggio, perché Bruna mi pare la persona più ferita.

Il lago del soldato.


Il lago è fermo, le sue acque immobili riflettono l’ambiente e i miei umori.
Non fidarti, tutto ciò che è fermo nasconde l’abisso che attende.
Sotto la superficie ogni cosa si confonde, la meraviglia si perde.
La limpidezza rivela la melma che afferra e non rende.
Seduto immobile, congelato nel quadro che osservo da dentro, il mio tormento si muove, ma non trapela.
Ogni vita che ho preso, ogni volto per sempre fermo in un sorpreso orrore, chiama il suo pegno.
Ho servito con onore, le medaglie splendono, le mie acque brillano.
Il mio inferno si nasconde, brucia di fiamme che lambiscono ogni mio umano sentimento.
Resto qui, sulle sponde del lago ad attendere che il mostro mi divori o mi porti con sé.

Il buco della serratura


Ho guardato nella serratura, sì, ho guardato.

Mi tremavano le ginocchia a stare lì, china.

Mi sudava la fronte e una ciocca cadeva ribelle sugli occhi.

La sbuffai via, facendo piano.

Mi presi i capelli e tirandoli li aggiustai dietro le orecchie.

Com’ero agitata, colpevole, nascosta.

I piedi mi si ghiacciavano sulle piastrelle fredde.

Cercavo di non pensarci, perché già la vescica mi stringeva il ventre.

Più scacciavo il pensiero dei piedi gelati,

più il freddo risaliva lungo le gambe

e mi gremiva, attanagliandomi

mentre venivo braccata

e poi torturata

dall’orribile imbarazzo

ero lì, con l’occhio addentrato

come un periscopio in perlustrazione

e la tensione mi accelerava il battito.

Ho guardato il Sole venire.

La mia Italia


La mia Italia è il posto da cui la vita è partita. Bello, non è sempre stato bello. Il nord-est ha paesaggi degni di nota, la pioggia a me piace, la malinconia struggente di ascoltarla picchiettare sui vetri, in un freddo pomeriggio cupo, rimane un mio bisogno. Eppure l’Inghilterra mi è stata più congeniale. L’Italia della mia infanzia era dimentica della fame dei nonni, voleva cancellare, bisognava guadagnare, spendere. Si andava alla Standa e si vestiva in felpa e jeans. I ragazzi erano paninari, imitando lo stile di Drive-in, poi si è capito che i nostri anni ’80 imitavano gli americani ’50… C’era Happy Days, Saranno Famosi e noi giocavamo ai telefilm ( povera generazione!). La mia compagnia costante è stata la televisione, mentre le Alpi svettavano dalla finestra, io ne imparavo i nomi a scuola, dalle foto. Non c’è stato alcuno a insegnarmi sul campo. Non c’era tempo, bisognava andare a lavoro e io imparavo a vivere da una scatola ammiccante. C’erano i campi giù dabbasso e noi si scendeva a giocare tra bambini. Avessimo saputo il nome di una pianta di un fiore… ricordo quest’erba dal fusto viola, una bambina la chiamava pianta pane uva, e noi la si rosicchiava come un bastoncino di liquirizia! Poi c’erano i gelsi per arrampicarsi e quelle more bianche, come larve. Con la bici ce ne andavamo a zonzo e non è che fossimo vigilati: si finiva sulla strada principale molto spesso e per culo siamo andati avanti.

La mia Italia quindi parte dalla provincia, da una terra fredda, realmente, di rapporti strani, pensavo di essere adottata, evidentemente non solo in famiglia (negando la somiglianza coi miei), ma anche in terra natia. Ero diversa, lo pensano in tanti, lo ero davvero. Colpa dei miei, un po’ asociali, ma io ero così assetata di sorrisi, di ciarle, di attenzioni! Così la mia Italia nazionale è arrivata dalla  televisione e tutto andava a meraviglia: c’erano luci, lustrini e ragazze, tettone e sorridenti, mentre gli uomini sfoggiavano i Rolex e i capelli impomatati. Era la stessa Italia che si vedeva dall’Albania in fondo.

A scuola ho imparato l’Inno e per mia imposizione l’ho voluto sentire caro, ma è durata poco, perché la terra che ti nutre, getta il suo seme e se oggi la penso in tutt’altro modo (che il Cielo sia ringraziato!), mi rendo conto che ci infarcivano di idee pericolose, non so come, non in casa mia, ma i grandi per darsi un tono parlavano di inno odioso, di un Verdi che sarebbe stato meglio. Io ci credevo, d’altronde se la tappezzeria non si intona, va cambiata!

Povera ignoranza nostra, ma come si fa! Senza storia, senza contenuti, i vecchi avvizziti negli ospizi con la loro memoria privata e i bambini intossicati da un’illusoria fantasia di benessere, tra l’ossigenato biondo e la macchina sportiva.

La mia Italia poi è cambiata negli anni ’90, quando i colori accesi e le chiome gonfie hanno lasciato il passo al rigore di abiti scuri e pessimismo diffuso.

In qualche modo l’AIDS, il buco dell’ozono, le guerre civili in Africa, la fame terrificante e le mattanze, hanno smosso qualche scrupolo, aggiungendo il disastro di Chernobyl, la caduta del muro di Berlino e dell’URSS.

Ho visto la gente cambiare espressione in corsa. La mia Italia è diventata un po’ isterica: l’allegria del piccolo schermo sempre più forzata, mentre le sue pietre miliari venivano calpestate e giovani ninfette date in pasto alle fantasie degli abbonati.

L’Italia a quel punto l’ho vissuta in diretta, nella vita quotidiana, mentre in tv esploravo il mondo musicale, cercando altre risposte.

La mia Italia in quegli anni era delusa, triste e corrotta, mentre la mia terra era un cappio stretto al collo, la mia famiglia una bugia collassata e io scrivevo su ogni foglio che mi si parava davanti.

La mia Italia era un mondo nascosto dalla tapparella abbassata, mentre scrivevo al buio e mi chiudevo in me stessa.

Ho scordato la mia Patria per un po’ di tempo, perché non era casa mia,trovando rifugio emotivo in una monarchia.

Sono tornata poi, e con occhi diversi l’ho amata di più. L’Italia vista da un’altra angolazione mi è piaciuta di più.

Questo è un Paese che nasce dal mondo, divenuto nei secoli teatro di battaglie importanti, guerre devastanti, mentre il popolo sovrano si adattava al suo padrone, maledicendolo da lontano e chinando il capo, in attesa della sua caduta e del nuovo arrivato.

Siamo noi l’Italia e non è un’opinione, né una frase fatta: noi siamo ancora quel popolo adattato, che vive passioni intense, col conflitto della colpa, perché la colpa noi lo sappiamo, c’è sempre, molto prima del peccato! e digrignando i denti aspettiamo che qualcuno ci liberi dal ladro, che ci metta la faccia e poi vedremo se ci piace.