Stretto in una soffice fortezza
Indisturbato
Dove la natura attenda
Con pazienza
Il risveglio maturato.
Il mondo scorre intorno
Ovattato
Mentre sogni una vita
Dalle spine
Mai sfiorato.
Stretto in una soffice fortezza
Indisturbato
Dove la natura attenda
Con pazienza
Il risveglio maturato.
Il mondo scorre intorno
Ovattato
Mentre sogni una vita
Dalle spine
Mai sfiorato.
Lo stringeva forte al petto, mentre correva, correva senza curarsi dei sassi, delle radici che affioravano sgambettanti, correva e non mollava la presa, mai.
Il sole era già lontano, nella sua discesa lenta, sembrava acquistare velocità.
Aspetta!
Lei correva e non si voltava mai, le braccia pesanti come tenaglie sul fagotto prezioso, le gambe andavano senza criterio, scompostamente goffe, ma procedevano.
Un urlo di terrore.. no!
Il fiato corto, le ginocchia rigide, spingeva più che poteva, senza più speranza che il cuore restasse in gabbia, ormai era così furiosamente in fuga dal suo petto, roboante ritmo che le percuoteva i timpani.
Tum-tum, tum-tum, tum-tum-tum…..
Il declivio alla sua sinistra, un manto d’erba fino alla stradina di terra battuta, ci pensò meno di un secondo e si lanciò, di fianco, rotolando come una biglia fino a frenarsi bruscamente piegando le ginocchia.
Faceva male, un male cane, tutto! Le ginocchia sbucciate, le escoriazioni che la ricoprivano su tutto il corpo e poi ancora l’urlo altissimo che le perforò le orecchie. Una promessa di morte, un’ira furibonda.
Corse, corse ancora.
Quando Carol è scappata, mamma non la prese bene. Le venne una furia tremenda, ma silenziosa.La tensione si tagliava a fette e ce la serviva puntualmente a pranzo cena e colazione.
La cosa che più la offendeva era che l’avesse lasciata lì a gestire le domande, le chiacchiere, da sola. Papà e io andavamo avanti con le nostre cose, a noi degli altri non importava.
Papà diceva che quelle grasse galline potevano continuare a chiocciare, tanto l’uovo non lo facevano mai!
Così, un giorno, mentre facevamo colazione in silenzio, con la mamma che sembrava Jack Nicholson in gonnella, arrivò la delegazione delle sante martiri dalle manine laboriose (oh, se erano laboriose, soprattutto quelle di mrs. Michaels, a detta del droghiere).
Mamma per poco non soffocava col panino imburrato, e una goccia di marmellata.
Si alzò, puntò il mento in alto con fare bellicoso e si lisciò la gonna, perfettamente sagomata sui suoi fianchi snelli, per non dire aguzzi.
“Oh, signore, che sorpresa gradita!” trillò mamma,”sono così sbadata, ho completamente dimenticato il nostro appuntamento, perdonatemi.” e così segnò il primo punto, facendo loro cenno di entrare nell’andito lussuoso della nostra dimora sempre pretenziosa.
Le dame rampanti si guardarono di sottecchi e come ogni pollaio che si rispetti, fu un’entrata di penne arruffate e beccate impietose. Sembrava avessero deciso di invaderci tutte al medesimo istante, incastrandosi nel portone, a dir poco imponente, tra una gomitata e uno strattone ruzzolarono ai piedi di mamma.
“Oh, miss Jones, lasci che l’aiuti, Josephine ha usato troppo lucidante sul marmo!”, io e papà ci guardammo e mentre lui ripiegava il quotidiano, io mi approntavo alla fuga, perché era evidente che mamma intendesse spargere sangue quel giorno.
Mentre le signore, con mamma in capo, si avvicinavano, io e papà eravamo quasi riusciti a farcela, ma lei ci inchiodò col suo sguardo ferino e fummo rovinati.
“Miss Jones, prego, si accomodi vicino alla nostra Rebecca, farò servire la colazione in cinque minuti” e così dicendo mamma sparì, e noi e loro ci guardavamo ammutoliti.
Presero tutte posto scompostamente e io ebbi la netta sensazione di essere circondata dagli squali.
“Come sei cresciuta Rebecca, la mia Hilary mi racconta dei tuoi sforzi musicali; dimmi cara, hai altri hobbies?” e così Mrs Michaels scoccò la prima freccia e io la presi in pieno petto.
“Veramente io studio il piano da undici anni ormai e quest’estate vado in Giappone per un master a numero chiuso. Non ho tempo per gli hobby, a parte le unghie, mi piace come me le fa Hilary.” e io l’avevo affondata! La sua figliola adorata non era dotata d’intelletto eccelso, ma era inarrivabile in quantitativo di alcolici assunto in una serata, in rimorchio senza contegno e faceva una french manicure stupenda.
Mrs. Michaels non ebbe modo di rispondermi, c’era un’invisibile macchia ostinata sulla gonna che richiedeva tutta la sua attenzione.
Miss. Jones mi guardò teneramente, era l’unica che ricordavo con affetto, sin dall’infanzia, sempre dolce, gentile, non capivo che ci facesse in quel gruppo di megere, ma mia madre aveva fatto carte false per entrarci, perciò non potevo commentare.
Miss Jones, l’altra, che per distinguerla dalla sorella veniva chiamata per nome, facendola inacidire di frustrazione, non mi preoccupava, finché seguitava a ingozzarsi come un’oca in procinto di cedere il fegato.
Eppure trovò un momento per prendere fiato: ” Cara Rebecca, ci chiedevamo Mrs. Michaels, la mia cara sorella Gertrude ed io, dove fosse la povera Carol. Siamo venute per porgere una mano, in qualsiasi guaio sia finita quest’anima in pena, noi dobbiamo aiutarla. Ricordate Susy, la figlia del macellaio? Che triste fine fece la creatura! ”
Ora Papà stava fumando, le offese erano state mitragliate tutte insieme, Miss Margaret Jones parlava esattamente nel modo in cui si cibava, tutto d’un fiato,senza pause e voracemente!
Susy era la figlia del macellaio, mentre papà era della più alta borghesia con ascendenti nobili, ma aveva sposato mamma, figlia di un imbianchino, che aveva fatto ogni sforzo possibile e immaginabile per adattarsi a qual mondo, riducendosi a un’isterica anoressica elegantissima copia di JackieKennedy, piuttosto che Onassis.
Susy era una testa più vuota di Hilary, si era fatta mettere incinta dal garzone del padre e il padre l’aveva ripudiata. Viveva in un quartiere povero, ma si davano da fare con Rob e tirava su il figlio come meglio poteva.
Da noi preferivano pensare che fosse stata stuprata e che per l’imbarazzo si fosse sbarazzata della vergogna, finendo per vivere sulla strada come una mendicante drogata.
“Carol, Miss Margaret,” e ricordarle che non era lei a portare il cognome la sminuiva in partenza,” è partita per un periodo, ma tornerà presto.” m ritrovai a mentire pietosamente.
Carol era scappata da mia madre e non aveva alcuna intenzione di tornare, era salita su un furgoncino con quel fumato del suo ragazzo ed erano partiti, vaneggiando di India e di apertura della mente, di chakra e cose che non m’importavano: ero io quella che sarebbe rimasta lì, tra mamma e papà a fare da cuscinetto a tutta quella tensione, finchè mi fossi consumata l’anima!
In quella, mamma riapparve trascinando per braccio una riluttante Pamela. La ragazza che aiutava in cucina: era arrivata dal Messico con la famiglia e si era adoperata subito per lavorare, studiando nel tempo libero, molto poco come tempo.
“Ecco Carol! Dicevate?” la mamma la mise forzatamene seduta di fianco a miss Margaret, trattenendole le spalle e artigliandola contemporaneamente, con le unghie perfettamente laccate di rosso inferno.
Calò un silenzio di tomba e mamma annientò ogni mozione, ogni pensiero che ci poteva affiorare, trafiggendoci ad uno ad uno col suo sguardo perforante.
Pamela tremava visibilmente, con lo sguardo bovino cercando aiuto, ma noi chinammo il capo, eravamo impotenti.
Fu così che Pamela divenne Carol e lo fece con profitto. Rimase sempre al fianco di mia madre e fu la migliore delle figlie e la più aggraziate tra le giovani, e poi non più giovani, donne della piccola fetida alta società della città.
Io me ne andai appena fui certa della mia carriera e tornai solo per le feste canoniche, per papà, mi faceva pena.
Carol, quella vera, non tornò più.
La portava sempre più lontano, mentre loro fingevano di non vedere, ma osservavano di sottecchi, continuando il lento incedere in confabulazioni sussurrate.
Lui si dirigeva con passo sicuro, tra i corridoi del vecchio collegio, tra quelle mura imponenti, di pietra fredda, di storia antica, di giovani incerti arrivati e partiti. Non potevano, non dovevano, ma quegli sguardi erano arrivati al culmine innescando un incendio senza possibilità di essere estinto.
Quel giorno, ognuno andava e veniva, tra i piani e lungo i corridoi, per sistemare i propri bagagli, fare i vari colloqui e prendere nota delle disposizioni del corpo docente. Si erano visti subito, ma come al solito,uno sguardo, tra la gente e via, continuavano il proprio percorso. Varie volte si erano sfiorati sfilando tra gli altri e un brivido intenso l’aveva percorsa da cima a fondo. Aveva continuato a parlare con varie persone, a fingere di capire cosa le stessero dicendo, col suo volto davanti, indelebile. A ogni porta che apriva, lo cercava con lo sguardo e le ore trascorrevano così, tra alti e bassi. Una delusione cocente ogni vola che cercandolo non lo trovava, mentre un tuffo al cuore, braci nel petto, ogni volta che inaspettatamente le sfiorava il braccio, mentre camminando passava oltre.
Giunta la sera i suoi sensi erano ormai in subbuglio, era diventata una tortura tremenda restare concentrata, mentre ormai il pensiero di lui era una vera ossessione.
Vagava come un fantasma, mentre tutti si dirigevano verso il refettorio, una disperazione cocente le aveva invaso il cuore, non si dava pace, lui appariva e spariva e il suo desiderio cresceva fino a raggiungere vette inesplorate, togliendole il respiro, chiedendole soddisfazione. Stava pensando di andarsene, non ce l’avrebbe mai fatta ad affrontare un anno così, mascherando ogni giorno le proprie emozioni, con lui sempre presente.
E poi, eccolo lì, ancora una volta, ma non se ne andò, rimase immobile in fondo al corridoio, fissandola con sguardo ardente. Si sentiva sciogliersi le gambe, mentre passo dopo passo si avvicinava a lui che restava immobile con gli occhi nei suoi. Il respiro le si fece corto, il ventre languido, con i pensieri che si rincorrevano nella mente, prendendosi per i capelli, gridandole la sua rovina, ma lei non poteva più frenarsi, si sarebbe immolata a quel sentimento, fosse la fine di tutto, avrebbe prima vissuto.
Si trovò di fronte a lui, si fissavano, immobili, respirandosi, dilatandosi, mentre il fuoco divampava sempre più impetuoso. Si guardavano e il mondo scomparve, si dileguò in quell’inutile ciarpame di salti con gli ostacoli che era sempre stato.
Le fece un cenno impercettibile, allungando la mano e lei assentì con il capo. Le afferrò la mano e un sorrise gli illuminò il volto, altrimenti sempre serio, mandandole il cuore in un cielo troppo alto da raggiungere. Le strinse la mano per fare capire e lei rispose. Si incamminarono verso il piccolo atrio posteriore, mentre gli sguardi si facevano indagatori, mentre i sussurri aumentavano il loro fiato. A loro non importava, non vivevano più in quella dimensione, non si proiettavano nel futuro, correvano a piedi nudi nel presente, immensamente felici.
La tirava con sé mentre i gruppetti di persone sembravano chiudersi via via su di loro, in un tentativo goffo di separarli. La sua presa d’acciaio non l’avrebbe mai lasciata, si voltava spesso per rassicurarla con sorriso sicuro.
Erano fuori e si dirigevano verso le scale di ferro esterne, dove altre persone si attardavano, rinunciando alla cena, e per quanto la luce fosse poca, un pallido chiarore lunare, sentivano gli occhi puntati su di loro e capì, capì che se ne stavano andando. Non sarebbero sopravvissuti allo scandalo e lei era già sommersa dai dubbi, dai rimorsi, ma lui si impiantò. la fissò serio e le accarezzò il volto con tocco lieve, poi spostando lo sguardo sulla sua bocca morbida le posò un bacio rovente sulle labbra. Si scostò riluttante, la guardò in cerca di conferme e lei lasciò tutto in quell’istante, lasciò tutto e lo mise tra le sue braccia.
Prendendosi per mano si allontanarono, verso la libertà.
“Cos’hai fatto, cos’hai fatto? Parla! Cosa cazzo hai fatto questa volta!!!”.
“Stai calma, va bene? E’ tutto a posto, non gridare, calmati!”.
“Non ci posso credere, per una vola che non ti accompagno, guarda che casino, lo sapevo! Ora ci tocca starcene qui, per quanto? Per quanto, genio? Un mese?”
Ruben si passò la mano fra i capelli, mentre rivoli di sudore scendevano dal mento al collo, raffreddandosi al gelo della notte in scie solide.
“Ho fatto come mi hai detto. Quello si è girato e mi ha beccato, che dovevo fare? Sono scappato, ma almeno abbiamo da mangiare” e così dicendo aprì la camicia mostrando le tasche cucite all’interno, ricolme di cibo.
“Sei stato veloce, ma non è questo il punto. Hai rischiato di farti prendere, lo capisci? Hai rischiato davvero di finire nei guai, ma come fai a stare tranquillo? E non sorridere, non lo sopporto!”.
“Dai, vieni qui”, la prese per un braccio, cingendole poi le spalle “che c’è, non mi hanno preso,vedi?” e così dicendo si batté il petto con forza.
Lara non rispose, chiuse gli occhi stringendoli con foga.
“Dai, non fare così, mi accorgo quando qualcuno mi segue. Non li avrei mai fatti arrivare qui. Li ho seminati prima dello svincolo. Lara!”.
Ruben si ammutolì, non c’era modo di migliorare la situazione. Prese il mento di Lara fra le dita e le sollevò il capo, scrutandola.
“Perché piangi adesso, sei sempre una palla al piede e io rovino tutto, lo sai, è il mio mestiere. Avevi paura per me? Perché non riesco a crederci, davvero”.
“Sei uno stupido arrogante, avrei dovuto lasciarti marcire in quel buco di culo che i tuoi zii chiamavano casa.”.
“Vai avanti, c’è qualcosa che non mi vuoi dire. Sputa il rospo!”:
Lara si sollevò appoggiandosi sui palmi. Lo guardò, mentre un lieve tremore passò sulle labbra, prima di decidersi.
“Ho avuto paura di perderti. E’ una debolezza che non mi posso permettere. Non voglio temere per te, non posso pensare a te, devo proseguire, lo sai che ho poco tempo.”:
Ruben rimase pensieroso a fissarsi i piedi. “Non devi pensare a me, non l’ho mai chiesto. Io ho voluto seguirti, ricordi? A mio rischio e pericolo hai detto. Hai detto anche che se mi avessero preso tu mi avresti lasciato indietro e io ho accettato. Cos’è cambiato? Per me l’accordo vale sempre.”.
Lara si alzò e gli diede la schiena. Ritrovò la posa sicura di sempre, la solita spavalderia.
“C’è che se lo rifai, ti farò pentire di essere nato. Non prendermi mai alla leggera, io sono il capo qui. Stai alle regole e tutto andrà bene!”.
Si allontanò senza lasciargli lo spazio di una replica con passo militare.
Ancora non lo vuoi ammettere, Ruben sorrise fra sé .