Giocavamo a nascondino


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Giocavamo a nascondino.
Sempre. Il gioco che accontentava tutti o che piuttosto evitava discussioni.
Io lo odiavo, come odiavo l’enciclopedia medica di mia nonna che puntualmente sfogliavo fino a farmi venire la nausea e gli incubi.

Si procedeva a fare la conta e già da lì, mi saliva l’ansia, l’emozione mista a terrore.
Sarei stata io sotto? Avrei dovuto correre a scovare tutti  e mentre cercavo uno, un altro si liberava? Avrei fatto brutta figura?
Alla fine, quel pensiero avvilente mi faceva preferire l’altra opzione. Di poco.
Meglio nascondermi bene e un po’ lontano piuttosto che stare nei paraggi e rischiare di essere beccata.

Parte il conteggio e mi vengono i brividi: tutti scappano e cozzano tra loro, risate e imprecazioni.
Io parto verso le cantine del condominio e il cuore mi palpita in gola.
Ho paura, so che non ha senso, ma ho paura.
Giù è buio, freddo e grigio.
L’estate non entra in quel regno di cemento.
Cerco di ascoltare, devo capire quando gli altri escono dalle loro tane.
Devo tornare su e non essere presa, catturata.
Sono una preda e mi scappa la pipì, terribilmente.
Il mio unico pensiero è trattenerla. Ogni volta che giochiamo a nascondino finisco per farmi travolgere dalle vertigini della caccia.
Perché qui si gioca alla caccia, si gioca alla preda e al cacciatore; si gioca alla guerra, al nemico che ti sorprende e non c’è salvezza.
Ho paura, anzi, sono pietrificata e mi scappa la pipì così tanto!
Lo sfarfallio nella pancia peggiora tutto. Una sensazione esilarante, quasi bella.
Ricorderò per sempre quella paura, il grigio delle cantine, l’attesa.
Non ricordo nulla della risalita, di chi si salvava, di chi finiva preso.
Ho solo memoria di quella paura segreta.

Ricordi di colonia.


Ricordo di un’estate in colonia.
Con la l minuscola, un’estate minuscola.
Ricordo un desiderio di legare, di piacere a gente mai vista.
Gli animatori anche loro, a cercare di piacere e di farsi piacere ragazzini spesso odiosi.
Un sapore di fascismo vestito da Italia casereccia. Non dico che fosse così, a me è rimasto così.
In quell’estate italiana nanna nà, che ululava i Mondiali .
I miei che giocavano a separarsi e a far finta di proteggermi, mentre stavo parcheggiata in quella colonia a cui avevano troncato “penale” per compassione.
Certo, il controllo pidocchi per l’amissione non prometteva bene.
Ecco, per me quell’unica colonia della mia esistenza, resta un’indelebile stazione di posta, tra un burrone e un deserto morente.
L’estate a venire i miei si sarebbero separati davvero e avrei avuto la certezza, eterna, della loro miseria umana.
Questi però, sono altri frammenti di me.

Raffaella


sospesa in nuvole che rafficano il cielo mi domando.

e scalfendo la carne con gatti annodati mi ribello.

ricordami la rima del mio cuore allegro

cantiamo insieme l’eco di un tempo.

gioisce il giorno che ci trova insieme,

amicizia imperitura nell’eterna veste.

sospirano i ricordi nel mio orecchio

ribolle il sangue fluendo sciolto.

raccontami ancora di com’ero felice

nel tempo che fu con te luminoso.

nell’angusto sgabuzzino del passato

abbatti il muro di cartone

e ti ritrovo ancora

amica di sempre.

 

 

La mia Italia


La mia Italia è il posto da cui la vita è partita. Bello, non è sempre stato bello. Il nord-est ha paesaggi degni di nota, la pioggia a me piace, la malinconia struggente di ascoltarla picchiettare sui vetri, in un freddo pomeriggio cupo, rimane un mio bisogno. Eppure l’Inghilterra mi è stata più congeniale. L’Italia della mia infanzia era dimentica della fame dei nonni, voleva cancellare, bisognava guadagnare, spendere. Si andava alla Standa e si vestiva in felpa e jeans. I ragazzi erano paninari, imitando lo stile di Drive-in, poi si è capito che i nostri anni ’80 imitavano gli americani ’50… C’era Happy Days, Saranno Famosi e noi giocavamo ai telefilm ( povera generazione!). La mia compagnia costante è stata la televisione, mentre le Alpi svettavano dalla finestra, io ne imparavo i nomi a scuola, dalle foto. Non c’è stato alcuno a insegnarmi sul campo. Non c’era tempo, bisognava andare a lavoro e io imparavo a vivere da una scatola ammiccante. C’erano i campi giù dabbasso e noi si scendeva a giocare tra bambini. Avessimo saputo il nome di una pianta di un fiore… ricordo quest’erba dal fusto viola, una bambina la chiamava pianta pane uva, e noi la si rosicchiava come un bastoncino di liquirizia! Poi c’erano i gelsi per arrampicarsi e quelle more bianche, come larve. Con la bici ce ne andavamo a zonzo e non è che fossimo vigilati: si finiva sulla strada principale molto spesso e per culo siamo andati avanti.

La mia Italia quindi parte dalla provincia, da una terra fredda, realmente, di rapporti strani, pensavo di essere adottata, evidentemente non solo in famiglia (negando la somiglianza coi miei), ma anche in terra natia. Ero diversa, lo pensano in tanti, lo ero davvero. Colpa dei miei, un po’ asociali, ma io ero così assetata di sorrisi, di ciarle, di attenzioni! Così la mia Italia nazionale è arrivata dalla  televisione e tutto andava a meraviglia: c’erano luci, lustrini e ragazze, tettone e sorridenti, mentre gli uomini sfoggiavano i Rolex e i capelli impomatati. Era la stessa Italia che si vedeva dall’Albania in fondo.

A scuola ho imparato l’Inno e per mia imposizione l’ho voluto sentire caro, ma è durata poco, perché la terra che ti nutre, getta il suo seme e se oggi la penso in tutt’altro modo (che il Cielo sia ringraziato!), mi rendo conto che ci infarcivano di idee pericolose, non so come, non in casa mia, ma i grandi per darsi un tono parlavano di inno odioso, di un Verdi che sarebbe stato meglio. Io ci credevo, d’altronde se la tappezzeria non si intona, va cambiata!

Povera ignoranza nostra, ma come si fa! Senza storia, senza contenuti, i vecchi avvizziti negli ospizi con la loro memoria privata e i bambini intossicati da un’illusoria fantasia di benessere, tra l’ossigenato biondo e la macchina sportiva.

La mia Italia poi è cambiata negli anni ’90, quando i colori accesi e le chiome gonfie hanno lasciato il passo al rigore di abiti scuri e pessimismo diffuso.

In qualche modo l’AIDS, il buco dell’ozono, le guerre civili in Africa, la fame terrificante e le mattanze, hanno smosso qualche scrupolo, aggiungendo il disastro di Chernobyl, la caduta del muro di Berlino e dell’URSS.

Ho visto la gente cambiare espressione in corsa. La mia Italia è diventata un po’ isterica: l’allegria del piccolo schermo sempre più forzata, mentre le sue pietre miliari venivano calpestate e giovani ninfette date in pasto alle fantasie degli abbonati.

L’Italia a quel punto l’ho vissuta in diretta, nella vita quotidiana, mentre in tv esploravo il mondo musicale, cercando altre risposte.

La mia Italia in quegli anni era delusa, triste e corrotta, mentre la mia terra era un cappio stretto al collo, la mia famiglia una bugia collassata e io scrivevo su ogni foglio che mi si parava davanti.

La mia Italia era un mondo nascosto dalla tapparella abbassata, mentre scrivevo al buio e mi chiudevo in me stessa.

Ho scordato la mia Patria per un po’ di tempo, perché non era casa mia,trovando rifugio emotivo in una monarchia.

Sono tornata poi, e con occhi diversi l’ho amata di più. L’Italia vista da un’altra angolazione mi è piaciuta di più.

Questo è un Paese che nasce dal mondo, divenuto nei secoli teatro di battaglie importanti, guerre devastanti, mentre il popolo sovrano si adattava al suo padrone, maledicendolo da lontano e chinando il capo, in attesa della sua caduta e del nuovo arrivato.

Siamo noi l’Italia e non è un’opinione, né una frase fatta: noi siamo ancora quel popolo adattato, che vive passioni intense, col conflitto della colpa, perché la colpa noi lo sappiamo, c’è sempre, molto prima del peccato! e digrignando i denti aspettiamo che qualcuno ci liberi dal ladro, che ci metta la faccia e poi vedremo se ci piace.