Giocavamo a nascondino


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Giocavamo a nascondino.
Sempre. Il gioco che accontentava tutti o che piuttosto evitava discussioni.
Io lo odiavo, come odiavo l’enciclopedia medica di mia nonna che puntualmente sfogliavo fino a farmi venire la nausea e gli incubi.

Si procedeva a fare la conta e già da lì, mi saliva l’ansia, l’emozione mista a terrore.
Sarei stata io sotto? Avrei dovuto correre a scovare tutti  e mentre cercavo uno, un altro si liberava? Avrei fatto brutta figura?
Alla fine, quel pensiero avvilente mi faceva preferire l’altra opzione. Di poco.
Meglio nascondermi bene e un po’ lontano piuttosto che stare nei paraggi e rischiare di essere beccata.

Parte il conteggio e mi vengono i brividi: tutti scappano e cozzano tra loro, risate e imprecazioni.
Io parto verso le cantine del condominio e il cuore mi palpita in gola.
Ho paura, so che non ha senso, ma ho paura.
Giù è buio, freddo e grigio.
L’estate non entra in quel regno di cemento.
Cerco di ascoltare, devo capire quando gli altri escono dalle loro tane.
Devo tornare su e non essere presa, catturata.
Sono una preda e mi scappa la pipì, terribilmente.
Il mio unico pensiero è trattenerla. Ogni volta che giochiamo a nascondino finisco per farmi travolgere dalle vertigini della caccia.
Perché qui si gioca alla caccia, si gioca alla preda e al cacciatore; si gioca alla guerra, al nemico che ti sorprende e non c’è salvezza.
Ho paura, anzi, sono pietrificata e mi scappa la pipì così tanto!
Lo sfarfallio nella pancia peggiora tutto. Una sensazione esilarante, quasi bella.
Ricorderò per sempre quella paura, il grigio delle cantine, l’attesa.
Non ricordo nulla della risalita, di chi si salvava, di chi finiva preso.
Ho solo memoria di quella paura segreta.