La marcia degli ultimi


Sul viale del tramonto sette ladri e due soldati,
si mettono in marcia dall’alba del giorno,
rifiutano il senso del nostro abbandono,

Dieci in partenza, nove al tramonto,
chi ha incastrato Roger Rabbit?
mi hai tradito al primo ricordo.

Piccoli uomini marciano stanchi,
non riempiono le mani chiuse
le cose d’un tempo importanti.

Ladri e soldati all’alba partiti,
gesti allenati, passi felpati;
tra le meningi le loro armi.

Conta e riconta, ne manca uno,
sul viale infinito si affaccia
affranto il cielo notturno.

Hanno sparato, imbrogliato
sul cuore hanno giurato
e poi al vento il loro pianto.

Cuore di uomo che perdi
il suono del battito ritrovi
nel ritmo del passo sul selciato.

Nove si stagliano all’orizzonte,
l’ultimo raggio sul mondo si posa,
Gloria Gloria Alleluia.

 

Amore rosso sangue in un sogno di brace


I morti giacciono nei loro sepolcri e non si curano più degli affanni degli altri, dei peccati e di ciò che sfugge.

I giorni vuoti sono la bestemmia gridata che squarcia il cielo e fa cadere gli angeli, come grappoli d’uva raccolti nei tini.

Camminando a piedi scalzi, una dolce agonia, tra le punte al primo passo che trafiggono la carne vulnerabile, lasciando poi il piacere della terra soffice e calda.

I pensieri che rincorrono se stessi tra le risa acute, mentre lo sguardo si perde all’orizzonte, sempre nostalgico delle terre mai conosciute.

Percorreva così il sentiero che portava alla piccola baia nascosta tra le rocce e lasciando l’erba sicura per le pietre aguzze sospirava per darsi la tempra.

<< A camminar scalzi ci si fa la suola!>> gli avevano detto.

“A che pro le scarpe allora?” si chiese per l’ennesima volta imbronciato.

Scese con attenzione l’ultima parte del sentiero, ripido e sdrucciolevole, ma un paio di salti agili velocizzarono l’impresa.

L’acqua era limpida, così chiara che era certo fosse gelida.

Pigre onde sonnacchiose si infrangevano a riva, con una danza sensuale, seguendo l’antica melodia dai lombi della Terra.

Si mise seduto tra i ciottoli, prendendosi le ginocchia tra le mani in attesa.

La brezza mattutina gli scompigliava i capelli maliziosa e lui quasi si mise a ridere per quello scherzo insolente.

La camicia aperta sul petto veleggiava sulla schiena e un brivido frizzante lo percorse tutto.

“paradiso, felicità, bellezza..”

Chiuse gli occhi sorridendo, lasciandosi fare dalla natura di quel posto mistico.

“mistico? è tutto così concreto..”

Alzò un sopracciglio senza aprire gli occhi, colto dal proprio pensiero, ma fu un istante appena e tornò a rilassarsi.

Un dormiveglia di carezze e melodie di giochi d’acqua e refoli d’aria fresca lo cullava nella sua beatitudine.

La pelle rabbrividiva sotto il tocco di palmi di seta che ne seguivano ogni ansa, ogni contrazione del muscolo.

Sospirava felice, mentre dita sottili gli spettinavano le ciocche, tirandole piano, massaggiandogli la cute con unghie leggere.

Ad occhi chiusi si stese sui sassi lisciati dal mare e dal vento, aprendo le braccia arrendevole, i piedi scalzi rilassati.

Carezze sul volto, sul petto, baci delicati sulle piante dei piedi.

Le mani si chiusero istintive, per l’agonia di stringere, di afferrare.

Gli occhi si schiusero cercando di focalizzare nella luce nuova del giorno.

Giochi di colori danzanti, poi più nitidi via via fino a tracciare un percorso chiaro, ma inconcepibile.

Sbatté le palpebre tre volte e si tirò su sui gomiti, ma una mano pronta lo spinse sul petto lieve e lui inconsapevole la prese stringendola forte.

Lo guardava sorridendo con gli occhi grandi, pozze di mare profonde, sorrideva solare, con i denti perlacei, candidi e lucenti.

Si avvicinò piano al suo viso, le ciocche brune carezzandogli il petto che sussultava a ritmo spedito.

Lei ridacchiò con sguardo birichino.

<< A che pro le scarpe?>>

Per poco non svenne, allungò l’altra mano per sfiorarle il viso, non si aspettava che fosse reale, ma la pelle liscia e calda lo convinsero, lasciandolo ancor più sbalordito.

<< Lo penso anch’io..>> fu tutto ciò che riuscì a proferire.

Lei sorrise più forte con gli occhi che si illuminarono, fiammelle calde nelle pupille.

<< Andiamo?>>

Lui annuì alzandosi.

Accettando la sua mano capì.

<< Ti stavo aspettando.>>

Incontro col gigante-I racconti di Lara e Ruben.3-


Giunti in cima al picco petroso, si persero a scrutare l’orizzonte, ognuno immerso nelle sue considerazioni.

Lara valutava il percorso migliore per proseguire, mentre Ruben sventolava le braccia godendosi il vento libero da ostacoli, rabbrividendo del dolce supplizio che gli recava sulla pelle bruciata dal sole.

“Così ti prenderai un accidente! Mettiti la maglia, sei impazzito? Non vorrai che perdiamo tempo a cercare di tirarti fuori da una febbre che ti mangerà ulteriormente il cervello!”

Ruben si voltò lentamente con un ghigno divertito sul viso,” Lasciami pensare Lara, tu che mi curi, che mi tocchi la fronte per misurarmi la temperatura, che mi tasti il polso per controllarmi le pulsazioni, tu che mi fai da infermiera insomma. Mi sa che me lo busco proprio un colpo, perché questa non me la voglio perdere!”

Lara distolse lo sguardo in fretta. Un subbuglio nelle viscere, di rabbia, confusione, irritazione e non le importava analizzare troppo la cosa. Quel ragazzo era un bell’impiccio, la cosa la distraeva troppo e non andava bene, per niente.

“Scordati l’infermiera, le cure del peggior cavadenti del tuo paese sarebbero dolci carezze in confronto alle mie! Non ti conviene cercarne le prove, fidati della mia parola. Sarei così incazzata se mi causassi un altro intoppo che ti farei scendere la febbre strappandoti la pelle di dosso, poi me la metterei in spalla e mi arrampicherei fino al picco più in alto, la impacchetterei per bene con tanta neve fresca dentro, poi tornerei qui e te la metterei in fronte.”

Ruben sorrise sghembo, “Tanta fatica per me! Non mi resisti, ammettilo! Non sai stare senza di me….uh, uh, scherzavo, scherzavo, stai calma, capo!”, ma non potè evitare il destro che Lara gli infilò tra le costole.

Stava per lamentarsi, quando un rumore di passi lo fece voltare verso lo stretto sentiero che affiancava la montagna.

Un uomo enorme, dallo sguardo feroce gli si parò davanti. Era vestito in modo bizzarro, con abiti di diverse fattezze cuciti tra loro, un insieme di gonne, camicie da uomo, mutandoni, pizzi, cravatte, gilet …, invece di renderlo ridicolo, gli davano un’aria di follia criminale. Ruben non poté fare a meno di chiedersi se quel vestiario strano fosse un collage a ricordo delle sue vittime. Deglutì rumorosamente e cercò Lara con la coda dell’occhio, per essere certo che stesse in guardia, ma non la trovò.

Il panico iniziò a pervadergli le viscere, mentre il gigante roteava una mazza chiodata abbattendola sul palmo della mano, senza battere ciglio, come fosse stato un semplice manganello.

Ruben cercò di recuperare lucidità mentale, di creare uno schema di mosse difensive e vie d’uscita, come gli aveva insegnato Lara. Lara? Dov’era? Impossibile che fosse scappata, quel mostro non l’aveva presa, allora, dove diamine era Lara?

Il mostro lentamente avanzò e ad ogni passò sollevava il pietrisco, con un boato sordo e una nebbia di polvere ad avvolgergli le caviglie. Lo sguardo truce, i capelli scuri raccolti in una trecciolina tenuta da un nastro rosa, un tocco infantile che non alleggeriva il suo aspetto, contribuiva a creare confusione.

Una cicatrice orribile gli attraversava una guancia, ma essendo mal cucita gli lasciava uno squarcio bianco che sembrava uno squalo l’avesse addentato. La bocca semi aperta metteva in mostra i denti ricoperti d’oro, appuntiti e aguzzi, come lo squalo che forse addentandolo era finito morso peggio.

Il collo bovino e le spalle immense erano un monito sufficiente per evitare lo scontro. Le braccia erano massicce e grosse a tal punto da rendere i suoi movimenti lenti, come fosse faticoso sollevarle. Erano percorse da cicatrici, ma a ben guardare c’era un disegno preciso, di serpenti che si attorcigliavano in spire senza capo, né coda, in un intrico senza fine. A Ruben vennero i brividi al pensiero che qualcuno avesse inflitto un taglio così preciso e continuo. Sapeva che usavano in certi luoghi una mistura che rallentava la cicatrizzazione rendendo quelle ferite un’agonia, ma assicurando la riuscita del disegno. Si chiese cosa rappresentasse quel groviglio.

Non aveva tempo di riflettere troppo, ma cercava di capire la minaccia, Lara gliel’aveva detto una marea di volte. Studia l’avversario, non partire in quarta, non colpire finché non sei certo dei suoi punti di forza e dei suoi punti deboli. Lascia che sia lui a esporsi per primo, schiva sempre, lo scopo è fargli scoprire le carte per primo.

Si chiese se la lentezza del gigante fosse dovuta allo stesso stratagemma, non doveva illudersi che fosse il peso a rallentarlo, probabilmente lo stava studiando a sua volta, voleva stanarlo. E ridurlo in brandelli!

Lara, dove sei capo?

L’orizzonte


E non ci resta che l’orizzonte lontano. Quando tutti escono e si allontanano, mentre ci sono e mentre se ne vanno, quando le parole sono vane, bolle di sapone e tu, di colpo, in un istante, smetti di lottare: per farti sentire, per farti capire, per mostrarti… smetti di provarci e sei te stesso finalmente, senza sforzo, mentre guardi là: l’orizzonte irraggiungibile, chimera di promesse di un luogo migliore.

Io non guardo più l’orizzonte, per non doverci credere, ma lo sento al centro dei miei pensieri e penso che un giorno , in qualche posto, sarei potuta essere migliore, felice, amata per me stessa.

Si fanno scelte in ogni istante, prendendo e lasciando e ci si convive, anche quando il risultato è caotico.

Niente gomme da cancellare, niente fili da disfare, solo giorni nuovi, finché il tempo della vita scorre per provare ancora e ancora.

Sono ferma, rivolta all’orizzonte e mi godo il momento solenne, senza risposte.