Ah, immagina un mondo in cui gli introversi, altamente sensibili, o come spesso vengono definiti con un certo fastidio ipersensibili, possano essere, agire secondo la propria natura! Non essere obbligati a essere educati secondo un’etichetta cucita sulla personalità di altri, sarebbe un sogno. La gente, la maggior parte, più bisognosa di rapportarsi socialmente secondo certe convenzioni, non si rende conto di quanto a volte (spesso), sia una forzatura estrema per gli introversi adattarsi. Nessun introverso vuole estraniarsi, anzi, solitamente amiamo stare con gli altri, ma è il modo in cui siamo “obbligati” a farlo che risulta faticoso. Fisicamente faticoso. Tanto che dopo una giornata di gruppo, anche in famiglia, si resta spossati, sfiniti. Noi vorremmo osservare, scherzare, spesso con una certa dose di sarcasmo e autoironia. I discorsi ripetitivi sono una tortura perché vogliamo parlare davvero, a cuore aperto, ma non con seriosità. Oppure, amiamo la leggerezza, l’ironia intelligente. È terribilmente spiazzante la risata di chi fa battute senza senso o diversamente, il monologo di chi si prende troppo sul serio e si offende di fronte l’ironia e non la comprende. Il modo totalmente sincero con cui ci viviamo, causa perenne di conflitto interiore (è impossibile mentire a se stessi), è anche lo sguardo che volgiamo sul mondo. Quindi, è grande l’insofferenza verso l’arroganza, il bullismo, la subdola manipolazione, soprattutto sentimentale. Viviamo l’eterno conflitto di chi vuole uscire e amare il mondo in toto, umani e natura compresa, ma la sofferenza di fronte a tante sovrastrutture, ci fa rifuggire nell’angolo sicuro. A volte soli con noi stessi ci sentiamo più amati, capiti. Non siamo tutti uguali, siamo simili nel modo di sentire e osservare e disperatamente agognamo un altro di noi da incrociare nel mondo per non sentirci troppo diversi. Poter essere come siamo e smettere di scusarci per essere sfuggenti; quando nessuno si scusa con noi per le angherie gratuite, le offese facili, perché dà un falso senso di potere all’insicuro ferire quello nel cui sguardo onesto si vede e non si piace. Sarebbe bello che chi è sensibilmente educato possa un giorno nuotare in questo mondo di squali, senza temerne l’attacco.
speranza
Luca non torna
Il viaggio in treno è stato lungo, per fortuna.
Ho salutato tutti. Con un messaggio sul cellulare.
Ho fatto i bagagli, ho staccato tutto, dato le chiavi alla portinaia, troppi perché avesse da protestare.
Sa che il proprietario non se la prenderà con lei.
Ho avvisato in banca che mi sarei trasferita e avrei fatto sapere. Sì, tranquilli: quei due soldi restano a voi.
Ho percorso all’alba per l’ultima volta le strade in cui sono cresciuta.
Ho annusato l’aria per ricordare, ho cercato volti che sapevo ancora celati dal sonno, nei propri letti.
Ho lasciato le lacrime asciugarsi nell’aria fredda del mattino.
Sono scesa senza fretta dal vagone, ho osservato tutti trascinarsi per uscire, per arrivare.
Ho raccolto i miei borsoni e mi sono seduta sulla prima panchina, a perdere tempo, tempo mio.
L’odore della stazione non è piacevole, ma non mi importa affatto: sa di speranza, possibilità e fa paura, una vertigine nelle budella che mi fa desiderare di correre, gridare e rannicchiarmi a terra.
Un sorriso per me, uno sguardo incuriosito e qualcuno si accorge che esisto, non saprà mai chi sono.
Mi alzo e con calma mi avvio.
Scendo la gradinata che dalla stazione mi porta sulla strada della città nuova e sconosciuta.
Non l’ho scelta, ho solo preso il primo treno disponibile e sono scesa al capolinea.
C’è il sole.
Il cellulare vibra.
Guardo per l’ultima volta il suo nome sullo schermo, spengo il cellulare ed estraggo la scheda.
Vado in un bar piccolo e accogliente, ordino un caffè e un croissant che mi farà venire l’acidità di stomaco.
In bagno faccio pipì e getto la scheda, avvolta nella carta igienica, poi tiro lo sciacquone.
Addio.
Lavo le mani.
Mentre faccio colazione osservo il posto. C’è una ragazza dietro al bancone e sembra parecchio affaccendata.
Mi avvicino e le chiedo se hanno bisogno di aiuto, io ho già lavorato come barista.
Mi guarda, chiede le solite inutili referenze, che offro senza entusiasmo. Mi capisce. Sorride divertita.
Pretende che passi un paio d’ore con lei dietro il banco per prova e io sono felice.
Ritira i borsoni nella stanza di servizio e si complimenta con me per la mia destrezza.
So che osserva le mie mani, la mia gola, e le mie gote ombreggiate. La mia voce è scura.
So che capisce, ma non chiede. Non ho voglia di spiegare!
Qualcosa scatta e decide di offrirmi l’appartamento, una scatola ammobiliata, sopra il bar.
Mi assumerà in settimana, le servono i miei documenti.
Sospiro.
Li osserva, ne fa fotocopia e me li restituisce sorridendo.
Continua a chiamarmi Lucia e capisco che Luca non torna.
Parole silenziose (d’amore?)
ilmiokiver sente
Ridi con gli occhi curvi e i miei sensi si stendono; cerco oltre il riso un appiglio, un anello cui ganciarmi, utopica speranza di essere cosa sola.
Come capirsi oltre e trovare quella più intima connessione?
Vorrei nel mio sarcasmo spiccio tu cogliessi altri angoli e angoli ancora, in un gioco di specchi in cui il mio volto ti scorga.
Agogno silenzi scroscianti di vita, ogni pensiero e intuizione che scorrano tra noi, non occorrendo bussola né ponti.
Se solo potessi spogliare corpo e cuore da cicatrici troppo profonde, forse, solo forse, passerebbe luce da scaldare il cuore e sciogliere nodi stretti, come pugni di lottatore.
Sarebbe, tutto sarebbe condizianale, il mio perenne relativo saper vivere.
La falce può attendere
Ma dove se ne vanno i sogni, i desideri?
mano nera che soffochi e prendi, dove vanno i bisogni e le paure?
Una conta infernale e sotto a chi tocca, fuori tu, continua il sorteggio: ad occhi chiusi chi tocchi è perduto.
Dove sono i bambini di allora, il futuro? Chi le risa, chi le bizze e tutto a divenire: dove celarsi da te?
Il tuo bottino sempre colmo, gli ostaggi certezze: chi ti ferma, chi ti piega? Mani giunte e grande fede: credere.
Credere sempre, fino alla terra, fino alle stelle e poi tornare. Vivere e morire e tribolare: sperare e lottare.
Dove vanno le vite, i colori, sguardi e odori? Nel mio petto c’è un posto per tutti, i sorrisi e le voci.
Ogni vittoria, un inganno, il gioco a perdere, non ha d’essere altrimenti: allora, perdi, stavolta perdi.
Il lume della speranza e la scelta di spegnerlo
Capita di tenere duro nei momenti difficili, perché c’è quel lume che porta speranza e stringendo i denti si va avanti aspettando tempi migliori.
Frasi fatte, che hanno il loro senso. Il problema arriva quando a forza di guardare quel lume che tieni dritto di fronte a te, vedi che il percorso è lungo, dietro e di fronte, ma nulla cambia, gli ostacoli si aggiungono e non hai più voglia di avanzare.
Nessuno spegne la fiammella, nessun vento è in grado di farlo, ma tu, tu desideri soffiare, e non pensi ad altro.
Pensi che camminare al buio sia la stessa cosa, quasi un sollievo, per non essere più certo che il percorso è segnato e gli ostacoli arriveranno ancora. Vorresti fermarti e come un bambino in una crisi di pianto, gettarti a terra.
Non parlo di lasciare la vita, ma di perdere la speranza, i sogni, ciò che si ha davanti come possibilità.
Eh, che dire, io sul lume non soffio, ma non so più se guardare a terra, a destra o a sinistra. Mi verrebbe da guardare in cielo con la speranza di non sbattere contro un palo.
Pessimo post, pessimo articolo, pensiero… cazzeggio. Vero!
Posso scusarmi, non cambia ciò che penso. Comunque la penuria di contante ha il suo peso, perché vuol dire non uscire, non evadere e tanti problemi da risolvere senza soluzione coi dati.
Quattordici anni fa mi lanciavo nel mondo, con la fionda tesa e tenevo duro. Sapevo di non poter contare sugli altri, ma volevo credere in me stessa. Ora credo un po’ più in me stessa, ma non sogno più. Sogno per le persone che amo, ma mi mancano miei di sogni.
Non soffio, non soffio, non soffio…
Goodbye my faith
Sorridere e soffrire nello stesso momento, capita a tutti. A me in quest’anno spesso, troppo spesso, e mi accorgo che il sorriso mi si spegne quando la stanchezza mi satura e cedo, mentre sorrido guardo chi ho di fronte e penso, ma chi se ne frega e di punto in bianco so di cambiare espressione in una mutazione schizofrenica, ma sono finalmente io. Stanca, di quel dolore che penso non andrà mai via, di guardare due occhioni e chiedermi se capiscono che dentro mi stanno lacerando, ho paura allora di far più paura io.
Non tutto va come si spera, quasi mai, eppure ho avuto gioie che non pensavo, perché in fondo mi sono sempre sentita marchiata, non serve andare a chiedersi perché. Se ti senti marchiato ti aspetti che la vita ti faccia lo sgambetto sempre, proprio sul più bello. Temevo di non potere mai avere ciò cui più tendevo, ma ho avuto, con lacrime, grida, rabbia, paura, sofferenza mordace, ho avuto, e allora? Ciò che ho perso quando ci ho sperato, un ultimo miracolo non chiedo altro, mi ha scavato dentro, due volte, per due volte una benedizione e altri due rintocchi a funerale.
Due sì, due no.. è andata bene, per chi porta il marchio sull’anima.
Anche il bue più mansueto può scattare. la rabbia è un buon alleato per reagire, per muovere le gambe e tirare il carro, ma ti logora dentro, ti consuma e non lascia chiudere i lembi aperti.
Tutto qui, due occhioni per ricordare, sorridere e morire un po’ e ancora domani e un altro giorno ancora.
Ringraziare il cielo di tutto cuore per ciò che di più bello mi ha donato e uno sguardo in terra a celare le lacrime per un buco dentro che si nutre di dolore.
goodbye sweet honey, goodbye my faith
Si sta come una bambola rotta nella cesta dei giochi smessi
Vorrei amarti meglio, giuro davvero.
Quante volte so che aspetti un abbraccio e non so darlo, non so cosa sia successo, io che dico a te insensibile e poi sto lì a difendermi sempre.
Eppure, cazzo, io mi ferisco, ti giuro che mi si squarcia la pelle e faccio certi sogni, certi sogni a volte che non so spiegarmi cos’ho nella testa. Possibile che Hitchcock mi si sia insediato nel cervello?
Sono una donna complessa e complessata, travestita da donna media, socievole e razionale, piedi in terra.
Io questi piedi ce li ho in terra per calpestarla!
Mi dispiace di rendere l’aria solida ogni volta che cerco di avere un rapporto umano con lei, ma che cavolo! Mi si insinua dentro come una piovra e mi terrorizza a tal punto che vorrei rompere tutto, perché non puoi dire a una persona allucinata che è più matta di un asino in groppa a un cammello!
Ho già il freno a mano pronto se serve, ma vorrei amarti meglio. Invece sto lì a guardarmi fare, come un pilota incapace di guidare.
Mi concedo a fette per non perdere l’intero e la vita scorre, mentre pianto i piedi a terra e mi scorre alle caviglie.
Donna martire, senza ambizione d’esserlo
Ridi di me, dai spogliati!
Mostrati con le tue incertezze,
dammi lo schiaffo sprezzante,
ferisci il mio interesse,
così ch’io non voglia più,
così ch’io non sia donna!
Lascia me nel grigio mare,
lascia me nel buio del mondo,
che nessuno mi veda,
che nessuno sappia,
che sono tua solo,
per tuo possesso.
Non sono la figlia,
nemmeno la madre,
sono la voce taciuta,
dal volto coperto,
per non farti tema,
né ambir tuo lo scettro.
Sono la donna sepolta,
la donna battuta,
la donna immolata
al potere bruto,
canto l’amore di vita,
di speranza mi nutro.
Non più un volto celato,
ma terra a riempir la bocca,
la carne abbandona le ossa,
mentre il mondo mi ricopre,
ma io resto nella coscienza
a cantar le mie passioni.
Fui donna in fasce
di fasce vestuta,
con sogni di brace
dal padre venduta,
ho mosso la pace
tra i campi di sangue.
Ascolta questa vita
e fanne tesoro,
ricorda le parole
conserva il perdono
e libera l’amore
dal male in uomo.
Ho letto un articolo riguardante l’ennesima morte di donna afghana, giovane poetessa in incognito, mi ha molto turbato questa situazione disumana che a tratti già conoscevo. Vi segnalo l’articolo di Maria G. Di Rienzo. Leggetelo.