Otis


Ricordo l’ascensore stretto e soffocante, quel loculo verdino.
L’odore stagnante di fumo, cani, profumi nauseanti e tosse. Ha un odore la tosse? Chi è salito su un ascensore condominiale lo sa, forse non ci ha pensato, ma lo sa.
L’incubo peggiore era beccare quell’uomo allampanato un po’ grigio sul volto. L’uomo in questione era gentile e per bontà sua parlava poco, a dimostrazione del suo cuore generoso. Il problema sorgeva dal buongiorno all’arrivederci, un tempo che si incastrava nel nostro condiviso viaggio, tra lo salire e lo scendere. I cancelli dell’inferno avrei giurato.
La povera anima aveva infatti la maledizione di portare con sé un alito fetido, ripugnante davvero, non una comune alitosi. La salita diventava una performance in apnea. Quegli occhi gentili, mi chiedevo, se capissero. Si trattava di una malattia? Mi si stringeva sempre il petto al pensiero.
L’ascensore.
Ovviamente, la gara era afferrarlo in tempo, per evitare di condividerlo. Parlare di cose inutili che verranno interrotte troppo presto o stare in un silenzio luttuoso con lo sguardo puntato sulle proprie scarpe? Ad essere audaci a volte lo sguardo cadeva sulle scarpe dell’altro.
Il massimo godimento era salire sull’ascensore con gli amici: boccacce allo specchio, risate immotivate, sobbalzi e ondulamenti della scatola appesa al cavo.L’abbiamo da bambini fermato più volte tra un piano e l’altro e disegnato sul cemento che appariva di fronte.
Niente più ascensore. Qualche volta ho preso quello dell’ospedale che porta l’odore della disperazione, di fumo, di sudore, di profumo stantio ed è poco meno che intollerabile.

Neanche un bacio in ascensore che io ricordi.
Peccato.

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