Gli ultimi rintocchi di campana


Un due tre suona la campana,

a chi tocca? Tocca a te!

Io mi volto e tu scompari,

faccio la conta

poi riappari.

Un due tre la campana suona,

dove sei? sono sola..

Io ti cerco, non ti trovo,

la veste di stracci,

il cappotto logoro.

S’alza il vento sospirando,

le chiome di corvo alate,

le labbra di rosso scarlatto.

Tornano a cantare

le voci chiare,

le cantilene erranti

in cerchi danzanti.

I miei piccoli piedi scalzi,

le braccia sottili,

dalla pelle diafana.

Suona la campana,

gli ultimi rintocchi,

torno alla dimora

degli eterni balocchi.

 

Morte di uno che morì


Il vecchio stava immobile, steso sopra il copriletto antico. L’odore di naftalina incombente.

Sembrava dormire, ma non era vero, come si faceva a dire che sembrava stesse dormendo, beato poi? Se dormiva, dormiva un sonno dannato, almeno questo cazzo potevano concederglielo! Le aveva sentite, tutte affrante, a correre di qua e di là, subito in azione. Ora erano libere e potevano dire che lui fosse stato tutto ciò che desideravano.

Stavano già cancellando e riscrivendo la sua vita intera, tra una telefonata e l’altra. Gli faceva quasi pena, quasi, perchè uno stronzo così non è mai compatito.

Finalmente la stanza si era svuotata e poteva osservarlo meglio. Le guance risucchiate , la bocca floscia, per quanto si sforzasse non riusciva a vedere il sorriso di pace che quelle stavano descrivendo dall’altro capo della casa, un po’ starnazzando un po’ frignando. Quello era un ghigno mortale, un fottuto ghigno che sarebbe rimasto impresso a tutti come ultima immagine della sua esistenza.

Ma chi se l’era inventata sto rituale di stare tutti intorno a un morto a chiacchierare a parlare di lui senza che questo possa replicare! Ma chi vuole essere davanti a tutti ‘sti stronzi, proprio nell’umiliazione finale, senza potersi sistemare la piega di un pantalone, un ciuffo spettinato, quella cazzo di espressione grottesca!

Bello mio, è proprio finita, finita dico io. Quando le donne possono ridere e piangere di te in questo modo è finita. Quando puoi gonfiarti come un pallone mentre i tuoi gas mortali cercano l’uscita e tutti fanno finta sia normale, mentre ti sbirciano inorriditi e goduriosi dello spettacolo macabro, è finita. Per fortuna domani stai sotto.

Che ingiustizia, lì immobile con le mani aggrappate al copriletto, le unghie lunghe di marmo, non c’era stato modo di tagliarle, come un demonio. Eppure un demonio lo era stato, un imbroglione, un infame. Il più scaltro dei ladri e il più infedele dei traditori! E la vita lo aveva punito, eccome! Ora, stava lì, di cera, un’immagine mesta, raccapricciante, ma loro lo amavano, o così raccontavano a tutti quelli che venivano in visita.

Tutti quelli che aveva imbrogliato volevano togliersi lo sfizio di sputargli addosso in un momento di distrazione generale, mentre quelle facevano le addolorate e lei, proprio lei, sveniva dalla disperazione.

La vita l’aveva fatto campare ai cent’anni, per umiliarlo, lui che voleva andarsene nel fiore della giovinezza, per fare loro uno smacco, col dito medio all’insù. Invece, loro lo compativano, raccontavano com’era stato fragile, com’era stato faticoso accudirlo coi suoi attacchi folli, ma era partito, non era colpa sua, poverino, altrimenti era così caro.

Caro, un corno! Era lucidissimo e le aveva chiamate baldracche, la moglie e la sorella che se la facevano col sagrestano, una in cucina, l’altra in cantina. Con quel baccano di urla e poi il rosario per penitenza. Ma quelle pensavano fosse la pazzia.

Gli diede un ultimo sguardo disgustato. Che schifo di invenzione morire, quella cosa lì non era riuscito a vincerla. Il baro era stato battuto.

Vamos al caldo, quel vestito l’ho sempre odiato. Che importa infondo ormai. E’ finita.”